dalle alpi
al lario
il viaggio
dei trovanti

«Portatevi, ad esempio, a Valmadrera e giù sul dorso dei colli, sui fianchi dei monti, sui margini dei laghi, sui cigli dei precipizi pù paurosi, dappertutto, dico, vedrete o solitari, o in gruppi fantastici, o allineati in modo mostruoso, falangi, pezzi enormi di graniti, di porfidi, di serpentini, di rocce alpine di ogni genere, evidentemente divelti dai monti lontani, portati più giù a centinaia di miglia di distanza e posti a giacere così rudi e informi, ove possono meglio stupirci...» (A. Stoppani, “La Valsassina e il territorio di Lecco”)

La coltre di ghiaccio che nel corso degli ultimi due milioni di anni ha ricoperto a più riprese buona parte delle sponde lariane, spingendosi alle soglie della pianura lombarda, costituisce uno dei più efficaci e visibili segni del modellamento delle montagne.

L’enorme ghiacciaio dell’Adda scendeva dallo Stelvio e invadeva la Valtellina, raccogliendo tutti gli apparati delle valli confluenti, sino ad unirsi con quello dello Spluga e della Valchiavenna, proseguendo poi verso Sud con uno spessore di oltre millecinquecento metri e una lunghezza di duecento chilometri. Un fiume di ghiaccio come lo si ritrova ai giorni nostri in Groenlandia, dove solo i picchi più alti emergono dalla preziosa acqua dolce conservata allo stato solido.

Mentre gran parte dei fenomeni geologici sfuggono ad una comprensione immediata, per via della umana difficoltà nel percepire il “tempo” di Gaia - la Terra - basato su cicli di decine di milioni di anni, legati ad esempio alla formazione delle rocce, più semplice appare comprendere l’azione, relativamente recente, di erosione, modellazione e trasporto dei grandi ghiacciai Quaternari.

Dalle leggende alla scienza

Sin dalla notte dei tempi, i solitari massi erratici, o trovanti, trasportati e depositati dal moto altalenante del ghiaccio, con le loro singolari forme, hanno attirato l’attenzione e curiosità sulla loro origine.

La natura aliena di questi blocchi spesso imponenti, così diversi per forma, tessitura e colore, rispetto al contesto in cui si ritrovano, ha alimentato storie e leggende. Cosa ci faceva un masso di granito in precario equilibrio sopra un basamento di calcare? Chi ce l’aveva messo? Le dimensioni maestose, le superfici strane unite alla posizione isolata hanno addirittura conferito ai trovanti una sorta di energia mitopoietica favorendo il sorgere di storie fantastiche o diventando spesso luoghi di culto: atti a celebrare un’alleanza con le forze naturali per i Druidi, opera del demonio per i cristiani.

La migliore spiegazione della presenza di questi strani “sassi” si rifaceva all’interpretazione letterale della Bibbia, fino a qualche centinaia di anni or sono unico supporto per ricostruire la storia geologica del mondo. Solo un’immane catastrofe, come il Diluvio Universale, poteva aver avuto la forza di dislocare quei massi enormi dimensioni dai loro luoghi di origine come se fossero bruscolini.

Il desiderio di spiegare, oltre al mito e ai testi sacri, il mistero degli erratici sparsi attorno al Lago di Como e sulle colline della Brianza non poteva non intrigare gli studiosi delle Scienze Naturali, discipline allora agli albori.

Frammenti di granito, serpentinite, gneiss, adagiati a fianco di bianche rocce calcaree del Lago, non potevano non porsi al centro della curiosità di Antonio Stoppani, uno dei padri fondatori della geologia e della paleontologia italiana.

L’abate, dotato di raffinato ingegno e osservatore acuto, non impiegò molto tempo per individuare una miriade di massi disseminati sui monti e i colli prealpini estranei al contesto geologico locale. Dopo minute osservazioni, logica e deduzione, i vecchi miti gli si rivelarono come pure fantasie e i meccanismi del misterioso trasporto apparvero chiari.

I massi più famosi

Dai suoi studi emerse lo stretto collegamento fra i luoghi di origine dei trovanti, la Valtellina e la Valchiavenna e il Lario: un ponte ideale tra questi territori esistente ancora oggi.

Non solo per l’orografia incisa dai fiumi affluenti, ma per la miriade di testimonianze “minerali” sparse ovunque, dal “granito ghiandone” della Val Masino e della Val Bregaglia, alla serpentinite della Valmalenco, per finire con gli scisti e gli gneiss delle Orobie e della Valle Spluga.

Sass de la Pepina, Pietra Pendula, Sasso di Preguda, Sass Negher, Prea Lentina, Sasso di Guidino, Massi della Molinata... sono solo alcuni tra i più noti erratici sparsi tra il Lario e la Brianza giunti sino a noi e, oggi, fortunatamente protetti da una legge regionale.

Non dimentichiamo infatti che, per secoli, il prezioso e solido materiale lapideo deposto dai ghiacci, si ritrovò bell’è pronto, per essere lavorato, scalpellato per farne materiale da costruzione, tombe, bare sacrificali, stele, cippi stradali, marciapiedi, architravi, stipiti di portoni, capitelli o strumenti di uso quotidiano come macine per cereali o legumi.

Queste piccole e grandi presenze rocciose alloctone, sia allo stato naturale, sia reimpiegate nelle architetture locali, caratterizzano l’intero paesaggio quotidiano del Lago di Como e dintorni. Non vi è sentiero, tratturo, vecchio caseggiato o dorsale panoramica che non ospiti, anche solo inglobata nei muri, nel selciato o adagiata nel prato o nascosta nel bosco una pietra che arriva dalle Alpi.

Un bell’esercizio, che stimola curiosità ed attenzione, sta nell’affinare lo sguardo mentre si cammina, anche a due passi dalla città, per cogliere la diversità di questi “sassi”, sovente scuri, ruvidi, screziati, osservarne da vicino i caratteri e provare ad associarli ai luoghi di provenienza.

Non servono conoscenze specialistiche, solo il desiderio di trovare qualcosa di insolito, un’ordinaria stranezza che spesso calpestiamo e sfioriamo senza accorgerci.

Una forma di educazione

È una forma elementare di educazione al paesaggio, che si può fare coinvolgendo i bambini.

Provare a leggere il gran libro di pietra che ci circonda, che ci aiuta a comprendere lo spirito dei luoghi e la sapienza di costruire di un tempo, basata sulle innate conoscenze geomorfologiche locali.

Forse l’incapacità di prendersi cura di questi spazi nasce anche nella mancata comprensione di questi piccoli segni, da uno sguardo spesso distratto e da una relazione in fondo superficiali con i nostri luoghi di vita e di lavoro.

Troppo impegnati a correr dietro a immagini alla fine effimere, spesso inventate, o alla rincorsa di spettacolarizzazioni turistiche di corto respiro, alimentiamo la cecità nei confronti della realtà unica e distintiva che sta intorno a noi.

Scoprire un insignificante masso “errante”, un pezzo di roccia in fondo inutile, significa quindi individuare l’autentico, sempre più minacciato dal simulacro, dalla moda del momento, dalla messa in scena di una falsa rappresentazione di queste Terre.

Un piccolo omaggio all’Abate, nel bicentenario della nascita, all’opera divulgativa della geologia che portò avanti specie con la pubblicazione de “Il bel Paese”. Peccato che il suo volto non compaia più sul noto formaggio diffuso nei frigoriferi di ogni famiglia italiana, che prese il nome dalla sua massima opera…

Cercare il trovante, può essere un piccolo gesto di ribellione alle manifestazioni di una società umana che già nel 1873, lo Stoppani definiva «una nuova forza tellurica» comparabile alle più potenti forze naturali della Terra.

Chissà cosa direbbe oggi, leggendo la ricerca pubblicata su “Nature” nel 2020, che informa come cemento, asfalto, automobili e tutti i prodotti creati dall’uomo superano in peso la totalità di piante, animali e microrganismi che popolano terra, acqua e aria.

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