«La frana in val Pola e il miracolo
della chiesa»

La testimonianza di uno dei primi soccorritori a 35 anni dalla tragedia che ha cambiato la Valtellina. «La vidi intatta in mezzo a boati, morte e distruzione. I massi finirono la loro corsa sfondando le case vicine»

Valdisotto, 28 luglio 1987, ore 7.27. Si interrompe l’energia elettrica e le linee telefoniche; dopo qualche istante dalle radio portatili degli osservatori dislocati sulle pendici antistanti il monte Coppetto viene annunciato il distacco della frana ed il suo ribaltamento a valle sul paese di Sant’Antonio Morignone.

Quella della frana è stata una caduta annunciata, dato che già da alcuni giorni aveva manifestato chiari segni di movimento che consistevano nel distacco, quasi continuo, di massi di vari metri cubi dal suo dorso e che rotolavano verso il fondo valle fra nuvole di polvere e abbattendo gli abeti che trovavano sul loro cammino.

Paesi evacuati

Per tale motivo i paesi di Sant’Antonio Morignone, Morignone ed altre contrade vicine erano stati evacuati e restavano accessibili solo alle persone che dovevano accudire vacche e maiali rimasti nelle stalle.

La frana, con i suoi 40 milioni di metri cubi di roccia, si era messa in movimento da quota 2150 metri s.l.m., era scivolata verso valle per una cinquantina di metri, si impuntava un attimo contro una discontinuità del declivio e conseguentemente, per inerzia, si ribaltava in avanti abbattendosi sull’alveo del fiume Adda posto qualche centinaio di metri sotto la sua traiettoria.

L’immane violenza dell’impatto di questa massa ancora compatta sul fondo valle, cancellava le frazioni di Sant’Antonio Morignone, Morignone e Aquilone uccidendo 35 persone la maggioranza delle quali abitava ad Aquilone, non evacuato perché distava più di un chilometro dal punto di caduta teorizzato della frana.

Le cause della morte

Le vittime sono state travolte dal crollo degli edifici provocato dallo spostamento d’aria e dal violentissimo lancio di detriti, fango, acqua e legname degli alberi. L’ammasso di rocce esplose dopo l’impatto, rimbalzava poi risalendo lungo la Val Mala situata sul versante opposto e risaliva fino a quota 1200 metri, disintegrando la contrada di San Martino di Serravalle e uccidendo altre 3 persone.

Il promontorio

Seguendo le irregolarità del terreno, circa 200.000 mc di detriti, rotolando e rimbalzando scaricavano la loro forza piegando verso sinistra rispetto alla direzione seguita dal grosso dei materiali proiettati, aggirando e sorpassando una sorta di alto promontorio posto anch’esso sul versante opposto a quello di partenza della frana.

Sulla sommità del promontorio, a circa 1200 m di quota, sorgeva la chiesa di San Bartolomeo de Castelàz costruita nel 1300, con il suo alto campanile e il suo ossario a vista che accoglieva anche i resti dei defunti della peste manzoniana.

Quella mattina nella chiesa c’erano anche due drappelli di bersaglieri di leva, uno montante ed uno smontante, per un totale di 8 militari. Questi presidiavano il posto, h24, già da diversi giorni e da quel punto di osservazione avevano il compito di comunicare via radio alla centrale operativa lo stato del movimento franoso. Il turno di notte smontava alle 7 e a quell’ora si era presentata la camionetta con il turno montante che, per raggiungere la chiesa, doveva percorrere un’accidentata stradicciola di montagna.

Lo zaino

Fatto il passaggio di consegne la camionetta ripartiva scendendo dal promontorio per portare a Bormio i 4 militari smontanti. Dopo poche centinaia di metri uno dei militari si accorgeva di non aver preso il proprio zaino e pregava l’autista di tornare alla chiesa. Fra le lamentele dei compagni nervosi per la notte in bianco, la camionetta raggiungeva di nuovo la chiesa rifacendo il percorso con una rischiosa marcia indietro; ma, neanche il tempo di scendere dalla macchina, che si scatenava l’inferno.

Un rombo orribile fece cessare di colpo i lazzi che si stavano scambiando i ragazzi e li fece voltare verso il corpo frana che se pure distante diverse centinaia di metri in linea d’aria e parzialmente nascosto dai muri della chiesa, lasciava intuire l’enormità di quello che stava accadendo.

Le centinaia di abeti immobili che lungo il declivio del corpo frana si stagliavano nel cielo terso di quella mattina di luglio, si misero in movimento aumentando di secondo in secondo la loro velocità verso il fondo valle, allineati come un plotone di esecuzione e avvolti da una densa nuvola di polvere.

Improvvisamente si arrestarono e, sotto lo sguardo paralizzato del drappello dei militari, cambiarono direzione e si avventarono contro il promontorio, spinti alle spalle dai 40 milioni di roccia.

Una meteora

Come una meteora la massa, con un boato assordante, si abbatté perpendicolarmente sul fondo valle radendo al suolo tutto ciò che i detriti proiettati incontravano nel raggio di più di due chilometri.

Le vibrazioni dell’urto provocarono un paio di rintocchi di campana della chiesa di San Bartolomeo mentre i bersaglieri, quasi accecati e soffocati dalla polvere, sentivano volare sulle loro teste massi di ogni dimensione, molti dei quali finirono la loro corsa sfondando tetti e pareti di alcune case evacuate circostanti la chiesa.

Una lingua di rocce alta due metri e larga dieci, come una colata di lava aggirò la chiesa e discese lungo la strada di accesso al promontorio, seppellendola completamente.

Io ero fra i primi soccorritori a giungere sul posto e mentre eravamo impegnati a operare in quel che restava del centro abitato di Aquilone, restammo sorpresi nel vedere emergere dall’area dell’impatto della frana, il drappello di bersaglieri praticamente incolumi e appiedati. Ancora adesso, a distanza di più di trenta anni, ripensando al loro racconto reso a caldo e confutato dai fatti tuttora visibili, mi trovo a pensare che se un fatto del genere fosse accaduto qualche centinaio di anni fa, quel luogo oggi sarebbe un santuario meta di pellegrinaggi.

Dopo qualche giorno dall’accaduto, vedere quella chiesa assolutamente intatta, con tutto quell’ammasso di rocce fermatosi a pochi metri da essa, i tetti sfondati delle case vicine e otto ragazzi a un soffio dalla morte rimanere solo impolverati, non è difficile pensare che se questi sono i miracoli, ne avevo certamente dinanzi uno del XX secolo.

I giornali

E invece, per quanto ne so, non è andata così e la notizia non è neanche arrivata ai giornali, forse presi dalla quantità di eventi gravissimi allora in atto in tutta la Valtellina. Nonostante fossimo nell’epoca della comunicazione, questo evento non è salito all’onore delle cronache, forse anche per riserbo di gioventù dei protagonisti principali.

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