«I vandali in provincia?
sono ragazzi normali»

Lo psichiatra Marcassoli sui numerosi casi che hanno interessato la Valle

Bad boys. Bad guys. Cattivi ragazzi. Sono loro, ragazzi per lo più minorenni riuniti in bande, le gang che ricordano l’America degli anni Cinquanta così ampiamente raccontata anche nei film di Hollywood, i protagonisti delle cronache cittadine negli ultimi tempi.

Fenomeni di microcriminalità, dai furti di smartphone agli atti vandalici, da spaccio e rapine ad aggressioni fisiche e sessuali, compiuti da bande di ragazzi che esercitano atti di bullismo nei confronti dei coetanei.

A Sondrio, non foss’altro perché qui ha la residenza, ha destato particolare clamore il caso del ventenne Zaccaria Mouhib, alias Baby Gang, arrestato la scorsa settimana per una serie di rapine (quattro gli episodi contestati e che lui respinge in toto, tre casi avvenuti in una zona centrale della movida milanese, tra le Colonne di San Lorenzo e piazza Vetra nel maggio 2021, e l’ultimo a Vignate, nel Milanese, lo scorso luglio) e già protagonista di diversi fatti di cronaca.

Ma non solo. Nei giorni scorsi il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica presieduto dal prefetto si è visto costretto affrontato la questione dopo gli atti vandalici di Morbegno, in particolare quelli perpetrati ai danni delle scuole.

La tranquilla provincia di Sondrio non è esente dal fenomeno della delinquenza minorile organizzata che, complice la pandemia con le sue conseguenze sui rapporti sociali, appare sempre più diffuso.

E non solo in quelli che, a torto o a ragione, sono spesso stati considerati a mo’ di ghetto come il quartiere della Piastra a Sondrio, su cui peraltro si sta lavorando anche in ottica sociale.

Ne parliamo con Claudio Marcassoli, psichiatra, psicoterapeuta, criminologo forense e docente di psichiatria forense.

Professor Marcassoli, i recenti vandalismi a Morbegno, piuttosto che il caso di Baby Gang hanno sconvolto la tranquillità di una provincia come Sondrio squarciando il velo su un fenomeno che si è scoperto non essere così lontano dalla realtà locale. Quali sono i contesti in cui nascono e crescono i cattivi ragazzi?

Si è portati a credere che questo tipo di microcriminalità nasca trovando terreno fertile nei contesti degradati ed emarginati: e in effetti vivere in ambienti disagiati, devianti, spesso respirando un clima di violenza e di vendetta, o appartenere a gruppi etnici isolati favorisce l’aggregazione in bande “ribelli”. In realtà, però, esiste anche una percentuale che fa riferimento a contesti nei quali l’estrazione sociale appare medio alta: spesso si tratta di adolescenti incensurati, con alle spalle famiglie benestanti, che vivono annoiati nel benessere e che scelgono il gruppo per sentirsi primi attori ancora più “potenti”. Ragazzi “normali” che hanno tutto e che non evidenziano particolari profili di rischio, i cui genitori tendenzialmente si accorgono di poco o di niente.

Come dire che se la causa scatenante è la povertà quest’ultima non è solo materiale, ma forse soprattutto di tipo culturale e sociale. È corretto?

Proprio così. La presenza di forme di devianza in famiglie “benestanti”, rappresenta probabilmente l’espressione di un altro tipo di povertà, quella relazionale; come scrisse già anni fa Melita Cavallo, Giudice del tribunale per i minori si tratta di «ragazzi ai quali apparentemente non manca nulla, ma che hanno bisogno di stordirsi, di eccitarsi e che solo attraverso la violenza ci riescono» si tratta, in altre parole, di minori che, per riempire il forte vuoto esistenziale di cui sono portatori, commettono azioni trasgressive, reati, per sperimentare emozioni forti ed affermare la propria presenza nel mondo.

Questi ragazzi non sono soli, però. Agiscono prevalentemente in gruppi. Di quali tipo di legami stiamo parlando?

Le bande nascono da una sorta di aggregazione patologica che porta a mettere in atto comportamenti antisociali: il gruppo giustifica, garantisce, annulla le colpe individuali: sono guidate da un leader antisociale spesso patologico, hanno una precisa gerarchia interna, controllano un territorio; proprio il controllo del territorio appare esser l’obiettivo primario, piuttosto che diretti interessi economici, così come il potersi vantare delle proprie azioni senza nessun limite. Spesso vi poi è uso di alcol o di sostanze che inducono direttamente alla violenza o slatentizzano predisposizioni all’impulsività ed all’aggressività. Tutto questo unito alle connessioni esasperate ed incontrollate a siti del web di ogni genere contribuisce a saldare questi rapporti e a condizionare le menti più fragili.

Nell’adolescenza il “gruppo dei pari”, minori di età simile, appartenenti a contesti differenti da quello famigliare accumunati da caratteristiche quali età, scuole, ambienti, attività nel tempo libero, diceva è una forma di aggregazione fondamentale per lo sviluppo e la crescita poiché permette di apprendere e sviluppare abilità differenti e complementari a quelle esperite in famiglia. Ma cosa succede se l’adolescente si sente rifiutato dal proprio gruppo di riferimento?

«Il rifiuto può determinare una tendenza ad aggregarsi con altri compagni “devianti” strutturando rapporti di sfiducia con il resto dei pari. In tale prospettiva, il rifiuto e l’aggregazione selettiva tra pari costituiscono due importantissimi indicatori di rischio di devianza minorile, coinvolgendo minori che isolatamente non commetterebbero nulla.

La forza del gruppo...

Il branco agisce con comportamenti sempre più pianificati e organizzati, ed è quindi un fenomeno da tenere distinto dagli atti antisociali messi un atto da un singolo individuo. Non sembra supportata la teoria che le gang agiscano soprattutto verso gruppi o soggetti oggetto già di discriminazioni o di pregiudizi: l’aggressività appare rivolta verso tutti in modo indistinto, verso tutte le età, con forse una “predilezione” per soggetti coetanei, visti come normali ed accettati. Colpisce anche il senso di “impunità” che caratterizza questi gruppi, come appare dalle loro stesse dichiarazioni quando scoperti o dal mettere addirittura online le loro prodezze: da un lato ciechi e spavaldi per la loro immaturità adolescenziale; dall’altro il gruppo che sembra stemperare la colpevolezza individuale, il senso di impunità e la progressiva caduta di valori.

Ma quali sono le cause scatenanti di questi fenomeni di microcriminalità? Cosa spinge dei ragazzi a imbrattare i muri della scuola come accaduto a Morbegno o a compiere atti di bullismo?

È evidente come non esista un’unica motivazione che porta a commettere atti di microcriminalità; ma un’insieme di concause. Potremo parlare per semplificazione di due tipi di fattori di rischio: individuali e sociali. I primi da ricondurre ad alcuni tratti di personalità, caratteriali, sembra influenzino i comportamenti antisociali anche negli adolescenti, come poi ci dimostrano gli studi e le ricerche sulla criminalità adulta: impulsività, oppositività, disturbi dell’attenzione, iperattività, incapacità a tollerare le frustrazioni che porta a scaricare l’aggressività su soggetti percepiti come più deboli; uso di sostanze, purtroppo potente motore e amplificatore di discontrollo degli impulsi e delle tendenza violente sociali.

E poi ci sono i rischi sociali e dunque contesti familiari disgregati, caratterizzati da conflitti, perdite, divorzi, abusi, mancanza di ascolto e contatto emotivo, famiglie multi problematiche non inserite socialmente, deprivate sia da un punto di vista economico che culturale, minoranze etniche spesso affiliate a loro volta a contesti devianti. Anche se pure una famiglia troppo protettiva e accondiscendente può far nascere nel ragazzo il forte desiderio di ribellarsi.

Abbiamo visto che nel caso di Morbegno l’autodenuncia dei ragazzi è avvenuta su pressione delle famiglie. Ma come possono o come devono comportarsi i genitori nei confronti dei ragazzi perché non si rendano protagonisti di atti di questo genere, quali sono le misure da adottare?

L’arma principale per affrontare il fenomeno è la prevenzione che deve avvenire su più fronti e livelli, rafforzando la rete sociale, lavorando per riportare le famiglie a ritrovare i valori morali e sociali di fondo del vivere in una comunità, richiamando l’importanza delle regole, dei limiti e del rispetto reciproco e trasmettendo ai più giovani modelli e modi di vivere positivi, basati sulla dignità propri altrui, sull’ascolto, il confronto e l’empatia. Bisogna aiutare i ragazzi ad esprimere il proprio vissuto, ascoltando quello che hanno da dire, anche i loro silenzi, i loro atteggiamenti al fine di dare loro voce e riconoscimento: spesso i loro comportamenti esprimono una richiesta di aiuto nella fatica della crescita permettendo così di creare e accrescere il senso di appartenenza e la propria identità.

Un contesto famigliare positivo in cui il giovane possa sperimentare se stesso, la propria identità, contribuirà a veicolare comportamenti pro sociali, insegnando la capacità di relazionarsi aprirsi all’altro e esprimere sé stessi senza dover ricorrere alla violenza, all’illegalità.

Incoraggiando i giovani a vivere con intensità le loro passioni sane, la loro curiosità, a scoprire ciò che vogliono essere e fare, si riduce il rischio della noia, della perdizione e della rinuncia per assenza di sogni, ideali e passioni oppure per la sensazione di non avere la possibilità di raggiungerli.

I ragazzi trascorrono tanto del loro tempo fuori dalla famiglia. Ci vorrebbe dunque un coinvolgimento più generale delle istituzioni a partire dalla scuola...

La scuola dovrebbe, di concerto con la famiglia e le altre istituzioni, creare realtà in cui poter sperimentare aggregazioni sane e positive con opportunità di crescita, di espressione del sé, di rapporti, amicizie e che siano anche veicoli di regole: lo sport allontana i giovani dalla noia, dona valore agli obiettivi, richiede e stimola un impegno personale, incrementa l’autostima, e il riconoscimento reciproco.

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