Trivelli: «Le liste d’attesa? Un falso problema. Serve un percorso di cura»

Dai tempi di attesa per le gli esami al nuovo Pronto Soccorso. Il punto del direttore generale dell’Azienda ospedaliera di Lecco Marco Trivelli.

Liste d’attesa, carenza del personale, nuovo Pronto Soccorso, integrazione pubblico-privato, attrattività del polo sanitario lecchese e molto altro. Marco Trivelli risponde a tutto senza reticenze e con una sola stella polare: l’utenza. Trivelli, in carica dallo scorso dicembre, è un dirigente dell’Asst di Lecco che non ha paura di parlare di cure, di medici e di pazienti.

Direttore, come ha trovato l’ospedale Manzoni al suo arrivo, due mesi esatti fa?

La realtà dell’Asst di Lecco è molto “solida”. Il Manzoni in particolare è davvero un ospedale “vivo”, molto forte. Non so se sia stato fortissimo, in passato. Ma oggi è ancora molto forte. E il primo modo per renderlo attrattivo è dirlo a tutti. Devono rendersi conto, i nostri specialisti, di lavorare in una realtà al top. Non possiamo confondere la difficoltà complessiva data dalla riduzione del numero di infermieri e medici, come una difficoltà specifica di Lecco. Anche se sappiamo che c’è un problema di demografia professionale.

Ovvero?

È matematica. Le classi di giovani che stanno entrando sono la metà delle classi che vanno in pensione. Il 1964 aveva un milione di nati ed ora sta entrando il 2001 che ha 500mila nati. E anche con gli apporti stranieri non colmiamo il gap. Io credo che sia possibile una immigrazione professionale regolata e pensata, ma non sarà in grado di colmare il gap demografico. E sarà così per i prossimi 20 anni. Altro dato: il 1964 fra venti-trent’anni sarà curato dalla classe 2020 che consta di 390mila nati. Prima due entravano nel mondo del lavoro e uno usciva, oggi è l’esatto contrario. Prova ne è che entreranno 30 infermieri quest’anno e ne usciranno 60.

Si dice sia a rischio il Spdc (servizio psichiatrico diagnosi e cura) di Lecco. È vero?

È un settore in grandissima difficoltà nazionale. Però a Lecco delle quattro dimissioni, due sono rientrate. E al concorso abbiamo la sicurezza che ci saranno due iscritti intenzionati a venire a Lecco. Ma è una battaglia dura. Siamo sul filo di lana.

La Sanità privata non può aiutare senza prevaricare quella pubblica né metterla a rischio?

È possibile collaborare. La nostra offerta è insufficiente e chiunque lavora bene è nostro alleato. Purchè non sia solo un moltiplicatore di prestazioni: se è disposto a mettersi in una logica di vera collaborazione tra tutti i soggetti, allora sì. Le Rsa, per esempio, sono alleati naturali per noi. E il privato Rsa è molto più grande del privato clinico. Il mondo del sociale e della riabilitazione ci interessa moltissimo.

Parliamo di Pronto Soccorso. La nuova ala è ancora chiusa. Quando aprirà?

Stiamo installando e per fine mese testeremo il nuovo apparecchio radiologico, la RX multiscopo molto performante, nell’ala nuova. Tutta l’ala potrebbe essere attivata per luglio. Ci sono incognite di tipo amministrativo con l’impresa e con Ats, Vigili del Fuoco e Comune, non tecniche, che devono essere risolte, ma hanno una scadenza naturale. Per avere l’accreditamento servono parecchie carte.

E l’ala vecchia quando sarà riqualificata?

È un progetto più lungo. Stiamo progettando un collegamento tra ala vecchia e nuova. Ma la progettazione dell’area dove collocare la nuova Tac multistrato (512 strati) da 903mila euro che sarà posizionata nel punto di giunzione tra vecchio e nuovo, è un’operazione lunga da portare a termine. Si parla del 2025.

Lei non ama parlare di liste d’attesa. Non ama perché non sa se riuscirà ad abbatterle?

No. Non amo parlare di questa rincorsa perché se dovessimo andare dietro a una domanda che è impazzita, impazziremmo anche noi. E io guardo in primis alle persone con le quali lavoro e che hanno bisogno di riposare. Quest’estate voglio garantire un periodo di ferie adeguato a medici e infermieri. Io le chiamo chiusure estive, con riduzione dei posti letto nei reparti, per prevedere turnazione estiva e quindi una programmazione famigliare dei nostri dipendenti. Magari perderemo un punto di produzione, ma basta non seguire gli isterismi e dare molta attenzione all’appropriatezza delle cure e ai tempi di degenza, per ovviare ai disagi. Sarei molto severo, riducendo i tempi di degenza il che permetterebbe, con quello che abbiamo, di fare bene quello che decideremo di fare. È una gestione efficace, quella che ho in mente.

Torniamo alle liste d’attesa…

Le liste deviano dal problema vero dei nostri pazienti: non sono seguiti nel loro percorso di cura. Moltiplicando le prestazioni alla ricerca di una risposta clinica, di terapia, di risultato, non si ottiene la cura, ma solo un sistema impazzito. Solamente una continuità e una conoscenza vera tra il gruppo medico e il paziente si curano le persone. Non è più possibile parlare con un solo specialista, ma bisogna relazionarsi con un’equipe di specialisti, cosa problematica per il paziente e per i medici. Il problema delle liste d’attesa è il sintomo di una dispersione, che fomentiamo se non cerchiamo di far fare esami e diagnosi da una stessa equipe che si prenda cura globalmente del paziente. Il tutto dovrebbe avvenire all’interno di un percorso di cura, dentro una continuità di cura, anche a livello diagnostico.

Ci spieghi meglio, direttore…

Non è possibile pensare alla Sanità come a un bancomat: chiediamo al sistema di farci fare ovunque lo stesso esame, ma questo non può essere uguale dappertutto. Chi ti conosce e sa cos’hai avuto in precedenza e a cosa potresti andare incontro in futuro, legge la stessa “lastra” fatta a Lecco o Monza in modo diverso. Io non vorrei aumentare le prestazioni, ma vorrei far sì che quando un nostro medico dice “serve questo atto, questa terapia, questa valutazione, questo trattamento fisioterapico”, il percorso per il paziente sia già in qualche modo organizzato, indicato. La cosa fondamentale è essere tempestivi. Ma soprattutto efficaci. Sa: io sono convinto che se chi ha veramente bisogno viene curato bene, i problemi delle liste d’attesa sarebbero del tutto relativi.

Ovvero?

Siamo in difficoltà, siamo davanti a un inevitabile decremento prospettico del personale. Qualsiasi atto clinico deve essere pesato ed efficace. E l’efficacia è favorita dalla continuità. L’obiettivo che ci stiamo ponendo è quello “del prossimo passo”. Chi viene deve avere la prescrizione, da parte nostra, e noi dobbiamo riuscire ad avere gli slot liberi per programmare il suo percorso.

Ma ci vuol dire che la domanda alla quale le liste d’attesa vanno incontro è sostanzialmente inappropriata?

Non è governata in una relazione vera di cura. Il medico di medicina generale fa troppe cose. Si misura sul numero dei pazienti fragili che ha e 250 pazienti fragili sono un tetto da non superare mai. Sa che l’anno scorso abbiamo avuto in Lombardia 600mila esordi di patologia?

Sembrano tanti, troppi…

Esatto. Non ci credo siano tanti. Sono al massimo 200mila. Ma gli altri 400mila? Sono pazienti che vanno alla prima visita in cinque posti diversi. Per un anno e mezzo ci siamo concentrati su ricoveri di classe A e urgenze ambulatoriali a 10 giorni, qui a Lecco. Ma la lista d’attesa è sul resto. Bisogna essere tempestivi, bisogna rispondere alle persone, ma dobbiamo prima riuscire a dare continuità in modo che ogni atto clinico sia dettato da quello precedente e ispirato a quello successivo. Le case di comunità sono da sviluppare per questo: danno quella non dispersione, anche geografica, che riuscirebbe a collegare Mmg e specialisti ospedalieri. I pazienti girerebbero di meno e sarebbero più seguiti, o più guidati, rispondendo a un’esigenza di cura e di prossimità. La vera attesa di un paziente è essere considerato davvero, non scegliere se andare a farsi curare a Lecco o Vimercate.

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