Scultore con il legno. La storia di Gino
artista del bosco

Piateda Belotti si è specializzato nelle radici. Una vita alla centrale elettrica, la morte vista in faccia e una passione che non lo ha mai abbandonato

Terra di scultori la Valtellina. E non importa se della nuda pietra o del morbido tronco di alberi svelti dalla furia della tempesta. Basta un tronco o solo un ciocco contorto perduto nel bosco per dargli un volto, infondendogli nuova vita.

Il papà reduce di guerra

A questa schiera di artisti nostrani appartiene Gino Belotti, piatedasco doc, un’intera vita nella Centrale idroelettrica di Piateda e fine incisore di radici contorte che brancicano nell’aria in cerca di luce. Classe ’50, Belotti ha iniziato sin da piccolo a sgobbare dissodando la terra, falciando l’erba necessaria agli armenti di famiglia, a mungere, a raccogliere il burro nella zangola o la ricotta calda nella “garota”, a insaccare la carne d’ottima salsiccia con ingredienti semplici e dosati, a farsi custode della vigna e del grano raccogliendo avidamente i parchi ricordi di papà Martino reduce della disastrosa campagna in Russia, fino alla tragica disfatta di Nikolajewka su Don, riparando fortunosamente in una fuga rocambolesca in patria dopo aver sofferto atrocemente freddo e fame.

Il suo ultimo compagno d’armi di quell’immane tragedia se n’è andato in silenzio pochi giorni fa a Traona. Ma Belotti si è sempre rimboccato le maniche frequentando quella scuola per elettrotecnico che gli ha fruttato un impiego determinante nella Centrale della Falk, fino alle “Gallerie dell’Uranio” sulla diga di Scais, ora sigillate.

Terribile il ricordo di quel fatidico 24 gennaio dell’80 quando, ripulendo dal ghiaccio la strada ferrata con la fresa, fu investito in pieno dal trenino di quota per un errore di manovra. Emorragia interna, fu subito diagnosticato. «Sentivo che stavo per morire – ricorda Belotti – la vista mi si annebbiava sempre più, come i miei pensieri, e mi mancava l’aria, quando mi è parso di udire una voce, forse uno spirito che mi rincuorava dicendo “Tu vedrai ancora Agneda, non è giunta ancora la tua ora”. E infatti sotto le abili cure di due infermiere e l’intervento risolutore di un bravo chirurgo, riuscii a cavarmela». Da bambino ha imparato l’arte della coltura e della cultura della terra e della montagna salendo in quota nell’alpeggio estivo per lunghi anni. Transumanza eroica. Solo nell’immensa solitudine delle Alpi. Senza alcun rimpianto. «Ma si può vivere da soli? – si chiede l’artista valtellinese che risponde con pacata, filosofica sicumera: «Certamente, finché mi accompagna lo spirito della fame e della sete». Venne poi il servizio militare a Napoli. «Sarà stata l’aria del mare che da montanaro ho visto con emozione per la prima volta, ma avevo sempre una fame insaziabile», ricorda Belotti.

I cestini

Di ritorno alla sua Piateda scopre poi di colpo la sua vocazione di intagliatore del legno che non l’abbandonerà mai più, scolpendo sopraffini cesti portafrutta, bastoni istoriati che nel fondo dell’elsa ricurva celano un vano per la grappa di mirtillo o di ruta, porcini dalla cappella maestosa, grolle delle Orobie per assaporare il vino buono, e finanche una tartaruga che fa capolino tra l’erba. Incontenibile l’estro di un artista che tanto ha dato anche al mondo dello sport.

In primis il calcio come centrocampista di sfondamento nella Pontese e poi come abilissimo giocatore di bocce che si distingue per destrezza e precisione. Il bocciodromo sondriese è la sua seconda casa dove spesso si ritrova con la sua cerchia di amici sinceri a cantare allegramente bevendo a grandi sorsi dalla sua capiente grolla.

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