
Cultura e Spettacoli / Sondrio e cintura
Lunedì 20 Novembre 2023
Lavandaie per gioco proprio come una volta
L’ultimo libro di Teresa Chiodo è un progetto fotografico in bianco e nero Donne di oggi che mentre lavano raccontano storie, di sé e degli altri
Le donne che un tempo si dedicavano al mestiere della lavandaia per lo più erano vedove di guerra, madri nubili o zitelle. Insaponare, sciacquare e strizzare i panni, sotto il sole o al freddo. Di certo non era una cosa che facevano per scelta. Le donne di oggi, che vediamo nelle foto del libro “Lavandaie” di Teresa Chiodo, invece lo fanno per gioco. Mentre lavano raccontano le cose degli altri, sapendo che è di sé che stanno parlando. Cinque in tutto le femmine chine sui lastroni di granito: tre figlie distratte con gli occhi liquidi e il vigore della giovinezza e due madri soddisfatte di un bucato che sta venendo bene: bianco come la calce.
L’idea lavando le tende a mano
Teresa Chiodo, scrittrice di origine sondriese, è l’autrice di una nuova pubblicazione; questa volta non un romanzo, cui ha abituato il lettore, ma un simpatico progetto fotografico tutto dedicato alle lavandaie di un tempo, con foto scattate tra gli antichi lavatoi di Sondrio, Tresivio e Montagna.
«L’idea mi è venuta un pomeriggio di luglio in cui io stessa ero andata al lavatoio per lavare delle tende di lino che mi erano uscite ingrigite dalla lavatrice – racconta Chiodo -. Qualcuno mi ha consigliato di usare acqua fredda e sapone di Marsiglia. E così mi sono ritrovata al lavatoio di Montagna alta a insaponare teli. Vista la mole di lavoro, mi sono fatta aiutare dalle mie figlie e da mia cognata. La cosa ha funzionato, perché le tende sono tornate bianchissime. Mentre ero lì, ho incontrato persone che non vedevo da molti anni, con le quali abbiamo ricordato i tempi in cui vivevo lì. Mentre stendevamo ho pensato che un evento del genere meritasse di essere fissato non solo nella memoria. Da lì l’idea di ricreare la situazione per poi immortalarla integrando testi e fotografia».
Se è vero che le connessioni diventano sempre più veloci, è vero anche che le dinamiche nelle relazione tra le persone sono sempre le stesse per l’autrice: desiderio di primeggiare, spirito di competizione, ma anche solidarietà e tanto cuore.
«Stesse inquietudini, stesse speranze – prosegue -. Ecco che il lavatoio diventa testimone silenzioso, scenario eletto di quelle lunghe ore di lavoro duro ma anche di evasione, in cui si condividevano esperienze di vita vera, ci si confrontava, si stava uniti perché nessuno si salva da solo. Soggetto di pittori, scultori, poeti e scrittori, la figura della lavandaia è stata celebrata molte volte e per me è poesia pura. Il lavatoio si può dire un luogo per sole donne? Pare che proprio lì siano nate e si sono diffuse, e anche affermate, le prime rivendicazioni dei diritti femminili». Idealmente è qualcosa che rimane molto attuale e moderno come concetto.
La furbizia delle nonne
«Un tempo funzionava al pari di un social network dove le donne si scambiavano le informazioni che sentivano ognuna provenire dalla padrona alla quale prestavano servizio, oggi le notizie corrono su altri canali, ma la sostanza è la stessa – spiega -. Poi era anche un momento ricreativo, si cantava, rideva, ci si sfogava in piena libertà. Sono convinta che potrebbe funzionare di nuovo». I dialoghi così diretti, quasi crudi in alcuni passaggi, ma vividi, sinceri, servono proprio a riportare allo spirito di una volta. Non mancano alcune allusioni sottili o provocazioni, anche se si tratta di battute fra contadini che si sa hanno il cervello fino. «Si può dire che io abbia attinto a piene mani agli scambi che nelle contrade del paese le donne avevano chiamandosi da una finestra all’altra – dice -. Naturali e spontanei, mai forzati. Anche se mi ricordo una certa attenzione di mia nonna nel confezionare le risposte, la destrezza nel difendere il proprio punto di vista. Potrebbe richiamare la sceneggiatura di un film neorealista». Qual è il fine di questa pubblicazione? «I prodotti dell’arte e della letteratura prendono forma sotto una spinta di cui, secondo me, l’autore non è mai del tutto consapevole – risponde -. Semmai, ci penserà la storia della critica a interpretare le finalità ultime, che possono essere anche senza scopo».
Quanto all’apparato fotografico, il fotografo che ha curato la regia, Luigi Bortoluzzi, ha scelto il bianco e nero senza tempo. «Penso sia il tono giusto per illustrare l’intensità nostalgica delle storie che ho raccontato – afferma Bortoluzzi -. La fotografia è innanzitutto luce, ma anche composizione dell’immagine, oltre che scelta del soggetto. E poiché io volevo che il soggetto scelto, le lavandaie, vivessero l’oggi senza tradire lo spirito del passato, ho voluto il bianco e nero per concentrare l’attenzione del lettore, per non distrarlo con i colori forti dei costumi o l’intensità dei cieli azzurri: ho voluto il b/n, insomma, perché attraverso la luce generasse più emozione, perché generasse empatia più che offrisse razionale realismo come sarebbe stato col colore».
C. Cas.
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