
Cultura e Spettacoli / Valchiavenna
Lunedì 16 Gennaio 2023
Foppoli, abate letterato dal carattere difficile
Il religioso visse nel Settecento a Campodolcino, e costruì il “Palàz” che alla sua morte donò al paese. Aderì all’Arcadia e fu decoratore. Tanto scorbutico che non esistono più tracce del suo passaggio

Di solito nei nomi delle vie di un paese si ricordano toponimi locali e, se ci sono, persone che lo hanno reso noto o che hanno lasciato una traccia, più o meno rilevante, di sé e del loro passaggio. Non è avvenuto così a Campodolcino per l’abate Antonio Foppoli, che lassù visse nella seconda metà del Settecento, forse pagando con questo silenzio il suo carattere scorbutico e polemico. Eppure ha regalato a quella comunità la sua casa, anzi il suo “Palàz”, come lo chiamano per eccellenza lassù, attuale sede del Museo della Via Spluga e della val San Giacomo, noto con l’acronimo Muvis.
La storia
Visse nel Settecento e divenne frate cappuccino, prendendo il nome di padre Giuseppe Maria da Tresivio, anche se era nato a Grosotto nel 1735. Probabilmente la scelta di Campodolcino, dove passerà gran parte della sua vita, maturò quando, nel 1772, si trovava presso il convento dei Cappuccini di Chiavenna. Qui questioni di salute, ma soprattutto la voglia di dedicarsi completamente alla letteratura e alla predicazione lo spinsero a chiedere al papa di abbandonare l’abito cappuccino e di entrare nel clero diocesano, il che gli fu concesso l’anno seguente, dopo che parenti e amici gli avevano garantito il richiesto vitalizio.
Il Foppoli fu uno dei letterati valtellinesi del ’700, aderente – secondo le mode del tempo – all’Arcadia con tanto di pseudonimo, strano com’era consueto e per nulla poetico: Dercenno Celendezio. Firmò ben quattordici opere, di cui alcune in prosa e in versi, altre sul papa e sulla religione, su letteratura e su filosofia e tre memorie a sostegno delle comunità parrocchiali dove si trovò a supplire. Non gli si può negare una certa erudizione giuridica e biblica, anche se prevale nelle sue opere uno stile sanguigno, una prosa mordace, infarcita di termini ricercati e di citazioni latine e greche, come volevano le mode del tempo, in linea con gli obiettivi arcadici. Il critico più generoso nei suoi confronti fu Ettore Mazzali che, nell’opera sui letterati valtellinesi e valchiavennaschi, gli riconobbe una sincera volontà moralistica.
Ma non è per il suo valore letterario che è passato alla storia di Campodolcino. Se mai si può ricordare che fu dotato di una non comune abilità come disegnatore e decoratore delle sue opere, con fini miniature di paesaggio.
A Campodolcino, dopo aver abitato per qualche anno forse in casa parrocchiale presso il prevosto Cristoforo Lombardini, che tanto stimò, prima del 1777 acquistò alle Corti l’antica osteria dalla famiglia Chiaverini, ampliandola, ristrutturandola e facendone la sua residenza. Vi aggiunse nel 1786 un piccolo oratorio, dedicandolo alla Madonna del buon consiglio e a Sant’Antonio di Padova e investì della proprietà la Cappellania dei morti. Per decorare la chiesetta chiamò il pittore Antonio Guidetti, fiorentino, abitante a Campodolcino, di cui già si era servito per decorare, sempre a sue spese, il coro della chiesa di San Giovanni Battista.
Cavaliere e protonotaro apostolico, beneficò generosamente la chiesa di Campodolcino, collocandovi a sue spese l’orologio del campanile e prestò il suo ministero, come supplente, in varie chiese della valle: nel 1778-79 a Pianazzo, nel 1781-83 a Madesimo, nel 1785-86 a Gallivaggio. Per qualche tempo fu a Brescia e nel 1792 servì, non senza contrasti, a Lanzada, finché nel 1799 tornò in valle, servendo per qualche tempo a Starleggia. Morì a Campodolcino nel 1815 a 80 anni d’età. Ai parrocchiani di Madesimo il Foppoli dedicò due appassionate memorie contro le pretese del curato e una terza scrisse a favore delle chiese nel comune natio di Grosotto.
Non è documentata la sua attività di predicatore, se non nel 1788-89, quando sostenne un triduo al santuario di Tirano. Testimonia lo storico don Pietro Buzzetti, dedicandogli un paragrafo nel suo lavoro sulle chiese di val San Giacomo, che all’esterno del balconcino del suo palazzo, evidentemente quello che si affaccia verso sud, a lato dell’entrata nell’oratorio, ancora nel 1922 si vedeva una lapide con la scritta “Juris Foppolianea usu publica”, cioè casa Foppoli di diritto, pubblica di uso. Altre scritte con il suo nome volle nel coro della parrocchiale decorato a sue spese e sotto l’orologio del campanile, oggi entrambe scomparse. Ma anche volle illustrare cinque suoi libri con il suo ritratto, affidato ad incisori dell’epoca.
Il restauro del “Palàz”
Nel 1896 il santo di casa, don Luigi Guanella, tentò di ridare vita al “Palàz”, istituendovi l’Opera pia Sant’Antonio, che diede lavoro a ragazze del luogo nella confezione di merletti e cappelli di paglia e aprendovi un asilo climatico femminile, ma tre anni dopo lasciò la direzione e l’iniziativa si spense. A metà ’900 il palazzo subì pesanti manomissioni, che ne snaturarono il carattere.
Fu solo sul finire del ’900 che, grazie all’iniziativa di Paolo Raineri, lo stabile, riconosciuto proprietà della Cassetta dei morti, è stato adeguatamente restaurato, eliminando le antiestetiche aggiunte, e riportandolo alla sua antica fisionomia per farne sede del Muvis.
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