Santana: l'omaggio rock
di uno che c'era a chi c'era

Nell'ultimo «Guitar Heaven», disco di sole cover di classici rock, qualche critica il chitarrista messicano se la merita: i duetti con popstar stile Mtv e, già dal 1971 di “Santana III”, l'induzione al flagello del salsa merengue. Carlos ha miscelato rock, jazz, suoni latini ed africani, misticismo trascendentale e un pizzico di progressive

COMO Carlos Santana è sempre stato accompagnato, oltre che dal successo, dall'accusa di commercialità e pacchianeria. In tal modo qualcuno ha già ingiustamente liquidato il suo ultimo “Guitar Heaven”, disco di sole cover di classici rock. Qualche critica il chitarrista messicano se la merita: i duetti con popstar stile Mtv e, già dal 1971 di “Santana III”, l'induzione al flagello del salsa merengue. Fortunatamente per lui e per noi la buona produzione supera ancora quella evitabile. Carlos ha miscelato rock, jazz, suoni latini ed africani («La mia musica è 100% Africa», dichiarò in Tv), misticismo trascendentale e - perchè no? - un pizzico di progressive. Oggi, come diciassette anni fa fece il celebrato “Spin One Two”, “Guitar Heaven” omaggia il rock “della gente che c'era” tramite “uno che c'era”, nonostante un paio di pecche, pure grosse, comunque in minor misura che in precedenti lavori. Il riff di "Whole Lotta Love" dei Led Zeppelin e la voce del carismatico Chris Cornell, ex Soundgarden e Audioslave, catturano l'attenzione, come la rollingstoniana "Can't You Hear Me Knocking", più compatta ma sempre incisiva, con il cantato di Scott Weiland degli Stone Temple Pilots. Fluida e grintosa "Sunshine of Your Love" (Cream), ospite Rob Thomas, fido collaboratore di Carlos. La prima delle due magagne: per tributare "While My Guitar Gently Weeps" dei Beatles, arrangiamenti simil etnici e ritmo alla moda; si salvano giusto le chitarre di Carlos, il resto è finto e patinato come il genere – spiace dirlo – da cui proviene la cantante ospite, India Arie, checché ne dicano gli irriducibili di Rhyanna, Alicia Keys eccetera; infelicemente scelto come singolo, è ben lontano dagli intenti del compositore George Harrison. Si recupera con "Photograph", con Chris Daughtry, leader dell'omonima band, in una pregevole versione della hit dei Def Leppard, come anche in "Dance the Night Away" (Van Halen), con Patrick Monahan dei Train. Arriviamo al punto più basso che, si ribadisce, non inficia la qualità del disco. Irritante sin dall'«uh uh yeah» iniziale, "Back in Black" degli AC/DC in un'orrida versione rap, sembra una pessima via di mezzo tra “Roll The bones” dei Rush e “Around The World dei Red Hot Chili Peppers”. Tali abbinamenti figli di Mtv furono già fatti con “Walk This Way” (Aerosmith + Run DMC) e recentemente, in modo altrettanto brutto, con “Lost” dei Coldplay e un terribile hip-hop. L'esempio purtroppo ha fatto scuola. Curioso, a suo modo, l'organo finale. A proposito di tale strumento, l'inconfondibile “Vox” di Ray Manzarek - unico ospite che ha a che fare con la canzone omaggiata - introduce una discreta “Riders on The Storm” dei Doors; alla voce, il tatuato Chester Bennington. “Smoke on the Water"  con Jacoby Shaddix dei Papa Roach che canta meglio qui che altrove, è sorpendentemente fresca e non inflazionata. Si noti la finezza-tributo: sul canale sinistro il classico riff dei Deep Purple, sul destro un rimando palese a “In My Time Of Dying” degli Zeppelin. Chitarra super santaniana in "Bang a Gong" (T-Rex); bene fa Gavin Rossdale dei Bush nel cantato che fu di Marc Bolan. In “Little Wing” di Hendrix c'è Joe Cocker, già con Carlos e Jimi a Woodstock. Brutte le percussioni elettroniche; meglio, comunque, che in “While My Guitar”. Classica "I Ain't Superstitious" di Willie Dixon; ottimo l'apporto di Johnny Lang. Il rock di ieri, sacrilego negarlo, è migliore dell'odierno e zio Carlos rieduca molti talenti di band contemporanee, troppo simili tra loro. Due bonus nell'edizione Deluxe: "Fortunate Son" dei Creedence Clearwater Revival, con Scott Stapp dei Creed (“Creed-Creedence”, ironia voluta?) e "Under the Bridge" (Red Hot Chili Peppers), con Andy Vargas, già membro della Santana Band e interprete della versione spagnola di “Yes we can”, brano elettorale di Obama. Può darsi che “Guitar Heaven” sia commerciale ma, ottimisticamente e nonostante le due magagne - anche se per qualcuno non lo saranno – inocula sano e vigoroso rock "to be played loud".
Alessandro Casellato

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