Diario da Seoul/4
Al lupo! Al lupo!

Lunedì 14 novembre stavo realizzando delle fotografie in una hankok, casa tradizionale coreana in legno e coppi, in un quartiere molto pittoresco della città: Bukchon. L'artigiana che stavo ritraendo ha vissuto e studiato in Germania, è una donna molto raffinata e crea oggetti di arredamento e gioielli con carta tradizionale e argento. Alla fine del mio shooting, mentre con il mio assistente Jason stavo preparandomi alla partenza, è scattato un allarme. Un vero allarme, fortissimo come quello che personalmente ho solo sentito nei film: allarme nucleare, allarme bombardamento. Il nostro corpo reagisce spontaneamente a questo rumore con un irrigidimento. Mi sono guardata in torno e per un secondo ho pensato che la Rolleiflex per le immagini d'assalto non è il massimo…

La radio, che stava trasmettendo musica classica ha iniziato un dibattito. Jason e Madame Kim sono rientrati nella casa e mi hanno spiegato con grande calma che tre volte all'anno per quindici minuti esatti la città svolge un'esercitazione. Sono tutti abituati e sereni. Madame Kim prepara un tè verde molto pregiato e mi serve con una grazia infinita. Mi raccontano che per strada non si deve camminare e ci si deve riparare nei negozi (che continuano a vendere senza problemi), nei locali o per terra, seduti vicino alle case. Nessuno può camminare ma in qualsiasi posto al coperto tutto continua come sempre, chi è a un meeting parla, la banca serve i clienti, le cucine sformano noodles e pallette di riso come sempre.

“E in metropolitana?” chiedo. Anni fa facevano un'esercitazione di evacuazione serissima ma ora solo fanno attendere tutti per quindici minuti. I militari fanno delle esercitazioni, si posizionano in alcune aree strategiche ma mi assicurano che nel novanta per cento della città solo non si vede gente camminare ma sono tutti all'interno e parlano, discutono. Ovviamente il desiderio di uscire e fare qualche foto era fortissimo ma sono stata fermata con una spiegazione semplice e indiscutibile. Non rispettare l'allarme è considerato oltraggioso. Non è una vera questione di sicurezza quanto di riflessione. Per quindici minuti tre volte all'anno Seoul si deve ricordare che il “fratello cattivo” è a pochi chilometri da qui e che qualcosa potrebbe succedere.

Nel quotidiano della vita a Seoul e nel resto della Corea del sud l'argomento è raramente affrontato. Il problema attuale di un giovanissimo, inesperto e debole presidente in Corea del nord preoccupa tutti ma non c'è il sentimento di essere ancora una nazione. Il commento che ho più spesso sentito è che in cinquanta anni di sviluppo, cambiamento ed evoluzione la Corea del sud si è creata un'identità e una storia completamente diverse da quelle della Corea del nord, dove la gente vive in condizioni di arretratezza e indigenza. “Sono come eravamo noi negli anni Cinquanta, non c'è stata nessuna apertura, nessuna influenza occidentale e la divisione è stata fatta in modo così forte che nulla ci lega a quel Paese” mi racconta Aharan, trentenne di Seoul. I coreani del sud non possono visitare per nessun motivo la Corea del nord e pochissimi sono i coreani del nord che riescono a scappare e ad emigrare al sud.

“Non ci sono legami, la sensazione è quella di avere sopra la testa un buco nero che ci divide dal resto del mondo”. Ma se la Corea, come spesso è disegnata, è un coniglio, la Corea del nord ne è la testa… Il confine è molto esteso ed è vicinissimo a Seoul. Quindici chilometri dal centro città ma un soffio da zone residenziali che arrivano a sette chilometri dal confine. Ho costeggiato parte del confine più volte. Una natura paludosa e incolta segna l'inizio della zona militare e al di là, veramente a poca distanza inizia il nord. Personalmente costeggiare in macchina queste zone con filo spinato punti di avvistamento e baracche per l'appostamento mi rende molto triste ma per i coreani è normale, è una necessità e nemmeno guardano più il colore verde mimetico che per kilometri caratterizza la strada.

Ogni giovane uomo fino allo scorso anno faceva tre anni di servizio militare, oggi sono diventati due. Il servizio è un misto tra servizio militare, per i più di sole otto settimane (training camp), e di servizio civile. I militari sono obbligati a fare arti marziali ad alto livello, si occupano di sicurezza ma anche di pulizia della città (spalano, scavano, lavorano) e vengono ingaggiati per le più disparate attività: sono stati i “testimonial” del G20 per esempio… Il governo ha a disposizione i giovani per tre anni. Devono fare quello che viene loro destinato. E' una forza lavoro non indifferente! Finite le settimane di training , dormono di solito a casa. Il servizio è spesso solo diurno e in metropolitana si incontrano ragazzi di diciotto o diciannove anni che rientrano in divisa mentre giocano con il loro immancabile smartphone e spesso hanno accessori che stonano con il rigore militare (borsettina shopping in tela, micro tv, borsa della spesa…).

Per gli uomini l'allarme di prova è molto più inquietante. Jason mi racconta che in caso di problema reale la chiamata alle armi si svolgerebbe per fasce di età ed essendo lui ancora molto giovane sarebbe tra i primi a dover rientrare. Dice che non ci pensa mai ma che nei giorni di allarme è difficile non figurarsi il peggio. Una volta finito il momento di riflessione, ci prepariamo ad uscire. Niente, dico niente è diverso. La città si è fermata su un piede solo, come quando da bambini si gioca a “un, due, tre, stella”. Quando chi conta si gira di nuovo tutto riparte come prima.

Martedì 23 novembre, tre giorni fa, in un'isola di confine sono scattati degli attacchi della Corea del nord in risposta alle esercitazioni militari congiunte tra Corea del sud e Usa. Da allora i giornali di tutto il mondo parlano delle due Coree e della successione di Kim Jong?il. Qui come lo si vive? Siamo in pieni Asian Games. Martedì un'importante partita tra Cina e Corea di badminton ha tenuto tutti con il fiato sospeso. Si sentono gli “oh” “ah” uscire dai micro ristoranti e dalle officine. La gente cerca di prendersi una lunga pausa caffè per vedere un po' dei giochi. Mentre al confine attaccavano in tutti gli schermi delle metropolitane migliaia di persone stavamo osservando una partita di basket.

Leggendo i giornali internazionali mi chiedo se sono stata teletrasportata o se davvero in Corea del sud prendiamo alla leggera una situazione grave. Difficile dirlo. Da due giorni ricevo messaggi ed e?mail da famiglia e amici che da tutto il globo si preoccupano per me. Ieri ho fotografato un quartiere popolare per tutto il giorno e ho finito la giornata in un centro nonprofit. La gente lavora, parla, mangia. Tanti gli argomenti, le discussioni, soprattutto sullo sviluppo forsennato della città che stravolge e distrugge sempre tutto, troppo in fretta ma nessuno, dico nessuno ha parlato degli scontri al confine.

L'abitudine “all'allarme” è forte. La storia di “Al lupo al lupo” mi sembra la miglior metafora per descrivere il sentimento rispetto a questa problematica. Alcuni commenti:“vogliono protezione internazionale, cercano sostegno e soldi”; “è uno stato che sta implodendo e che preferisce morire con i fuochi d'artificio piuttosto che arrendersi”; “lo scontento all'interno della Corea del Nord è fortissimo, nessuno vuole questo presidente, nessuno ha fiducia, nessuno pensa che sia adatto”; “è una mina vagante”; “non sappiamo nemmeno se possiedono davvero le armi che dichiarano”; “sentono che la Cina li sta abbandonando e hanno bisogno di alzare la voce”; “sono anni che usano le stese strategie, ma poi tutto rientra in quella tensione che non è effettiva ma politica. Sono questioni solo ed esclusivamente di potere: il governo in Corea del sud usa questa tensione per certi aspetti (se c'è un pericolo, la Nazione deve essere unita e tutte le problematiche di corruzione, di scontento, di divisione che sono presenti e in questo momento forti passano in secondo piano), dall'atro lato la Corea del nord per esistere deve farsi sentire ed essere sulla stampa internazionale. Non produce, non è più autosufficiente e non si vuole evolvere”; “molti pensano che sia questione al massimo di uno o due anni e la Corea del nord cadrà ma la Corea del sud non vuole inglobare quella del nord, sarebbe un tracollo economico, devono trovare la loro via!”; “Non so come e quando accadrà ma un giorno ci sarà un altro paese in balia di se stesso, libero ma arretrato e poverissimo. Noi non siamo più una nazione unita e per molti coreani la corea del Nord è alterità. Non abbiamo nulla in comune se non la geografia e una storia lontana. Il distacco è stato così violento dalla guerra di Corea a oggi… Non siamo più un solo Paese. Noi siamo un treno in corsa e loro un carro rotto. Dovranno trovare un modo per uscire da questa situazione ma non saremo noi a salvarli, spero!”. Da Seoul in una tranquilla mattina di sole e di “scaramucce” al fronte.
Susanna Pozzoli

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