Tributi: che Gershwin pimpante
se a Chailly si combina Bollani

Non è solo la presenza di Bollani a giustificare l'eventuale bollino «file under jazz»: si farebbe torto alla maestria di Chailly

COMO Basta leggere l'intestazione di questo stupendo album per cogliere tutto il dramma dei negozianti, di critici, delle riviste specializzate: è disco jazz o di classica? C'è un talento dell'improvvisazione, se pure dalle solidissime basi, come Stefano Bollani ma anche un direttore inventivo, aperto alla sperimentazione e avventuroso come Roberto Chailly. Il collante è, da sempre, un dilemma di per sé:  George Gershwin, strano domandarselo ancora a più di cent'anni dalla nascita di questo genio della musica del Novecento, era un autore “leggero” con manie di grandezza o un compositore che sapeva scrivere conestrema facilità anche melodie felicissime, fresche ancora oggi come se il tempo non fosse passato? Facciamo come i due titolari di questa raccolta dedicata al grande americano, facciamo come i professori della Gewandhousorchester e, semplicemente, non poniamoci più questi problemi. Anche perché, è bene sgomberare il campo dagli equivoci, non è solo la presenza di Bollani a giustificare l'eventuale bollino «file under jazz»: non è questo il caso di un pianista che ci mette lo swing mentre l'orchestra si limita a leggere lo spartito seguendo le indicazioni del direttore. In questo caso si farebbe torto alla maestria di Chailly che ha operato, in questo caso, come già aveva fatto riprendendo i brani di Shostakovich nel consigliatissimo The jazz album. Ha spinto i suoi musicisti ben oltre i limiti della notazione e del tempo accademico. Basta ascoltare l'iniziale resa della Rhapsody in blue nell'orchestrazione che Ferde Grofé approntò per la dance band di Paul Whiteman: non sussiste la preoccupazione di ricreare un'atmosfera d'epoca né Bollani si sente limitato da un contesto che non prevede spazi per eccessive improvvisazioni, anzi, il suo assolo è tra i momenti più emozionanti della sua carriera e fa di questa incisione una delle migliori per quanto riguarda la “versione 1924” di questa pietra miliare del XX secolo. Il pianista non appare nella suite Catfish row che altro non è se non una selezione di brani dal Porgy & Bess: la stessa Catfish row con elementi di Jazzbo brown's piano blues e Summertime; Porgy sings che attinge da due songs, I got plenty o' nuttin' e Bess, you is my woman now; una Fugue, Hurricane e la conclusiva Good morning, brother). L'approccio di Chailly e dei suoi professori conferma quanto scritto sopra: libero anche se, ovviamente, legato al testo. L'altro punto focale del disco è il Concerto in F, scritto da un autore ormai di successo e più tendente a prendersi sul serio (perché il primo a porsi la grande domanda sull'essere “classico” di Gershwin era proprio Gershwin stesso, vittima di un complesso di inferiorità nei confronti, soprattutto, dei grandi compositori europei).
Anche questi interpreti lo prendono sul serio ma senza caricare la composizione di eccessi cerebrali: un'altra interpretazione magistrale. Finalino divertente con l'allegro rag Rialto ripples con tanto di sketch conclusivo dove il direttore saluta l'orchestra con un Aufwiedersehn lasciando finalmente improvvisare Bollani che, a quel punto, potrebbe andare avanti all'infinito, altro che cadenza.
«Stefano, io vado...», dice Chailly. «Ordini due linguine anche per me?» risponde il jazzista liberato. Anche Gershwin le avrebbe gustate volentieri: alla faccia della musica “seria”.
Alessio Brunialti

© RIPRODUZIONE RISERVATA