Se la riforma Cartabia danneggia ciò che vuole tutelare

L’effetto paradosso, in medicina, si ha quando un principio attivo scatena conseguenze indesiderate che sono l’opposto di quelle sperate. È lo stesso effetto che, talvolta, si produce di fronte a certe legge scritte con uno scopo ben preciso, ma che finiscono per produrne uno esatto contrario.

Il 2023 ha portato in dote al nostro Paese la cosiddetta legge Cartabia, una riforma che incide in vari campi della giustizia e che – tra l’altro – ha introdotto regole invasive anche sul fronte della comunicazione. Facile immaginare gli occhi dei lettori alzarsi verso il cielo, a questo punto della lettura. “Ecco un altro articolo di autodifesa della categoria dei giornalisti con la scusa della libertà di informazione”. Forse; ma dateci il beneficio del dubbio. E fatevi prendere per mano in questo viaggio nel meraviglioso mondo del paradossale. Quel mondo in cui Oscar Wilde sosteneva che “essere completamente liberi e, allo stesso tempo, completamente dominati dalla legge è l’eterno paradosso della vita umana”.

La storia è la seguente. Un avvocato comasco finisce sotto inchiesta per truffa. Alcuni clienti lo denunciano perché, a loro dire, si sarebbe appropriato indebitamente di compensi legali connessi a un maxi risarcimento per un incidente stradale. La Procura di Sondrio chiede e ottiene un provvedimento cautelare, oltre al sequestro di una ingente somma di denaro. Il giudice delle indagini preliminari firma un divieto di dimora e ordina il sequestro. La Guardia di finanza esegue. Un mese più tardi la notizia – che ha tutti i crismi dell’interesse pubblico – viene diffusa attraverso il solito comunicato stampa estremamente stringato. Autorizzato dalla Procura, come prevede – appunto – la legge Cartabia. Fermiamo il racconto per un attimo. E parliamo della norma.

Le regole volute dalla Cartabia sull’informazione giudiziaria, sono state pensate per garantire la presunzione d’innocenza. Che, essendo un cardine costituzionale, è assolutamente sacrosanta. Convincono meno i paletti previsti per arrivare (senza successo, vedremo) a quel risultato. La norma, in buona sostanza, limita pesantemente la possibilità per chi fa informazione di confrontarsi con fonti ufficiali. E prevede che tutte le comunicazioni provenienti da organi dello Stato sottolineino sempre che, fino a condanna definitiva, gli indagati o gli arrestati sono innocenti. Prediligendo così la forma alla sostanza. A decidere cosa è notizia, come e quando darla, è il Procuratore della Repubblica che deve autorizzare la polizia giudiziaria alla divulgazione dei comunicati. Questa serie di norme non tiene in alcuna considerazione, però, tutte quelle regole sinonimo di sana informazione: una notizia dev’essere attuale, dettagliata, verificata. Tutte garanzie previste a tutela del pubblico e dell’attendibilità della notizia, sacrificate sull’altare di una presunta tutela del buon nome degli indagati. Presunta perché, nei fatti, il risultato è identico all’effetto paradosso di certi medicinali.

Torniamo al nostro esempio. Il comunicato stampa della polizia giudiziaria sull’indagine a carico dell’avvocato viene inviato agli organi di informazione quasi un mese dopo il provvedimento cautelare (alla faccia dell’attualità!) e due settimane dopo l’annullamento dello stesso, su istanza della difesa. E qui si consuma il paradosso: per mettere in pratica una norma a tutela della presunzione d’innocenza, alla stampa viene fornito un testo parziale, scarno e impreciso perché omette un particolare a favore proprio di quel principio che la Cartabia intende tutelare: l’avvocato non è più sottoposto a misura cautelare, perché il difensore ha ottenuto la revoca. Una fatto sostanziale, ben più importante della forma.

La cronaca giudiziaria, spesso, si è macchiata di eccessi e abusi. Ma norme simili sono una medicina peggiore della malattia che avrebbero la pretesa di curare. A ognuno il suo mestiere: magistratura e polizia giudiziaria indaghino, anziché scrivere post sui social o inviare veline che vorrebbero veder pubblicate testualmente, e i giornalisti - nel rispetto delle norme deontologiche e del codice - raccontino i fatti. Senza tralasciare nulla. Neppure il sacrosanto principio della presunzione d’innocenza.

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