Lecco e la voce
di padre Turoldo

Vent'anni dopo, il ricordo di padre David, cittadino benemerito di Lecco

di Vittorio Colombo

L'abito talare sembra ormai troppo grande per quel corpo scavato, la figura è ancora imponente ma curva. Però la voce, quella no. Quella è sempre potente e carismatica. Ti entra in corpo, fa vibrare la pelle. La voce di un predicatore, la voce di un uomo che parla come un profeta. Parole che sono tuoni contro l'ipocrisia, la viltà, il benessere di pochi costruito uccidendo gli ultimi della terra.

E' l'immagine di padre David Maria Turoldo in quell'ultima notte di Natale nell'abbazia di Sotto il Monte. Il tumore al pancreas, "il drago che si è insediato nel ventre", come lo chiamava lui, se lo sarebbe portato via nemmeno due mesi dopo.

Sono passati vent'anni, da quel 6 febbraio del 1992. Oggi la città rende omaggio a padre Turoldo, che è stato un riferimento per molti lecchesi - amici e discepoli - che lavorano nel suo solco nella chiesa, nella scuola, dentro il sindacato.

Nei prossimi mesi lo ricorderanno in tanti, a partire da monsignor Gianfranco Ravasi, che l'altro giorno ha evocato dalle colonne di Avvenire «il suo costante schierarsi, magari sporcandosi le mani e la fama nel "grumo nero" della storia, alla ricerca non certo di un consenso né di un puro e semplice dissenso ma solo di un senso, come padre David amava ripetere a suggello di quegli anni».

Padre Turoldo, che se ne è andato prima di Tangentopoli, della fine della Prima Repubblica e dell'arrivo della Lega. Prima degli anni del Bunga Bunga e della morte della politica. Si è risparmiato tutto questo, verrebbe da dire. Lui che, giovanissimo, partecipò alla Resistenza, lui che credette in un'Italia nuova. Eppure mai come in questi anni avremmo avuto bisogno delle sue parole, di guide come la sua a indicarci una via d'uscita.

Turoldo, l'uomo di chiesa e il grande poeta, che Ravasi ricorda con le parole di Carlo Bo: «Padre David ha avuto da Dio due doni: la fede e la poesia. Dandogli la fede, gli ha imposto di cantarla tutti i giorni».

C'è quella sua "Lettera di Natale", quando il drago se lo stava già portando via: «E' un mondo senza infanzia. Siamo tutti vecchi e storditi. Da noi non nasce più nessuno: non ci sono più bambini fra noi. Siamo tutti stanchi : tutta l'Europa è stanca: un mondo intero di bianchi, vecchi e stanchi. Il solo bambino delle nostre case saresti tu, Gesù, ma sei un bambino di gesso! Nulla più triste dei nostri presepi: in questo mondo dove nessuno più attende nessuno. L'occidente non attende più nessuno, e tanto meno te: intendo il Gesù vero, quello che realmente non troverebbe un alloggio ad accoglierlo. Perché, per te, vero Uomo Dio, cioè per il Cristo vero, quello dei "beati voi poveri e guai a voi ricchi", quello che dice "beati coloro che hanno fame e sete di giustizia ...", per te, Gesù vero, non c'è posto nelle nostre case, nei nostri palazzi, neppure in certe chiese, anche se le tue insegne pendono da tutte le pareti...».

Eppure, concludeva, «tu vieni, Gesù; tu non puoi non venire… Vieni sempre, Gesù. E vieni per conto tuo, vieni perché vuoi venire. E' così la legge dell'amore. E vieni non solo là dove fiorisce ancora un'umanità silenziosa e desolata, dove ci sono ancora bimbi che nascono; dove non si ammazza e non si esclude nessuno, pur nel poco che uno possiede, e insieme si divide il pane».

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