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Sabato 05 Novembre 2011
Guccini arriva a Varese
L'unico concerto lombardo
Tutto esaurito per l'appuntamento dell'11 novembre. «La Lega? Mi preoccupa quella ticinese per le scelte sui lavoratori frontalieri»
VARESE Il signor Francesco Guccini, di anni 71, potrebbe essere un tranquillo professore in pensione, assorbito dalle sue letture e dalla scrittura di qualche saggio su autori dimenticati, lo studio luminoso con il camino, i colori dell'autunno che riempiono le finestra di una luce dorata e malinconica.
A Pàvana sull'Appennino, niente è più lontano del manifesto, ormai epocale, in cui il Francesco cantautore, barba e baffi alla Che Guevara, compare da circa quarant'anni sui muri di mezza Italia, ad annunciare la tournée prossima ventura. La «chitarra ed il fiasco», gli inseparabili musicisti, «Flaco» Biondini, Ellade Bandini e Vince Tempera, la «erre» ronzante che a volte sparisce nel canto, sono tutti amuleti di cui i fan vanno fieri, perché sembrano eterni e invincibili. Francesco è di nuovo al mulino dei suoi vecchi, un rifugio da eremiti, scosso soltanto in estate dalle voci di qualche «becca aria», cittadini affamati di una natura che non conoscono, vista tutt'al più in televisione o nelle riviste patinate. Con i primi freddi se ne vanno anche quelli, e Pàvana ritorna un punto indefinito sull'Appennino, lontanissimo dai palasport, da luci e amplificatori, sciarpe agitate e qualche pugno chiuso.
Però... però Guccini proprio allora scende dalla montagna e ritorna nelle città, per un tour che probabilmente sarà l'ultimo o forse no, a cercare il contatto con il suo pubblico, quelli della sua età che lo ascoltavano da giovani e i giovani che ancora lo ascoltano in mp3, tra una fermata e l'altra della metropolitana.
Varese è l'unica data lombarda di questo giro di concerti, Francesco ci tiene perché sa che da noi lo amano in tanti, anche quando ci butta in faccia i nostri difetti di provinciali pasciuti e un po' superficiali, più attenti alle vetrine che ai vetri rotti dei contestatori. Guccini chissà dov'è, al telefono non risponde, quelli di Lunatik lo cercano perché l'appuntamento per l'intervista era mezz'ora prima, ma alla fine eccolo all'altro capo del filo, sornione.
Francesco, ma lì da voi c'è la luce? Qualche osteria, ritrovi dove far tardi?
«Le osterie e i tarocchi li ho lasciati a Bologna, dove peraltro vado ogni tanto, quando devo parlare con il mio amico e coautore, Loriano Macchiavelli. Qui comunque ho diversi amici, ci si vede da me, si beve si parla».
Cosa pensa delle ultime polemiche legate ai dissidi interni della Lega?
«Ho seguito da, direi, molto lontano le vicende leghiste, ma quelli sono sintomi comuni a ogni partito di potere. Se fossi in voi, mi preoccuperei di più della lega ticinese, che vuole tagliar fuori i frontalieri dal mondo del lavoro».
Cosa ha pensato vedendo le devastazioni dei Black bloc a Roma?
«Non sono né un sociologo né un politologo per giudicare, ho letto diverse interviste fatte ai ragazzi, ma non ho ben capito alla fine cosa vogliono. Una cosa positiva c'è: che la parte buona dell'Italia, che non ostante tutto ancora esiste, si sta indignando, vuole cambiare e buttarsi la crisi alle spalle».
Come passa le sue giornate a Pàvana?
«Leggo, anzi rileggo molto. Cose assorbite da ragazzo che oggi riaffiorano, così sento il bisogno di riprenderle. Kipling, per esempio, mi sono riletto i suoi racconti e due romanzi. Poi scelgo libri di linguistica e storia locale, perfino gialli, quelli degli autori di moda, gli svedesi e i norvegesi, ma anche classici, come Nero Wolfe ed Ellery Queen».
Come è andato «Malastagione», scritto con Macchiavelli?
«Molto bene, tanto che in Germania ne hanno acquistato i diritti. Con Loriano abbiamo in mente un altro romanzo sempre ambientato sull'Appennino, stavolta è una storia vera, capitata alla Guardia Forestale. Ma sarà cosa futura, ora abbiamo in lavorazione ognuno un proprio libro».
Il suo qual è?
«Un saggio sugli oggetti che non ci sono più, il telefono a muro, per esempio, che una volta era nero e appeso di fianco alla porta d'ingresso. Uscirà a gennaio per Mondadori, sono riflessioni su cose che magari ritenevamo importantissime con gli occhi dell'infanzia, che tutto ingrandiscono».
Paolo Conte, che ha ricevuto poche settimane fa il premio Chiara dedicato alle «Parole della musica», a lei assegnato l'anno scorso, dice di amare il dialetto parlato ma non lo utilizzerebbe in musica e tantomeno lo vedrebbe insegnato nelle scuole. Lei che ne pensa?
«D'accordo con Conte. Il dialetto si impara in casa, varia da quartiere a quartiere. So che a Bologna esiste una scuola, se la fanno con criterio può anche starci. Io parlo due dialetti, il modenese di mia madre e il pavanese di papà, però non mi sento pronto a scrivere».
A quando il nuovo disco?
«Ci sono poche canzoni pronte, però vien qui spesso «Flaco» Biondini, ne parliamo, prima o poi si farà».
A Varese canterà brani inediti?
«Riproporrò «Su in collina», che parla della lotta partigiana. Non voglio anticipare altro, perché poi mi ritrovo il pezzo su You Tube registrato col telefonino».
Che rapporto ha con la poesia?
«La leggevo molto ai tempi dell'università, approfondivo la letteratura anglo americana. Oggi ogni tanto ripesco e vedo: amo Andrea Zanzotto, da poco scomparso, che ho conosciuto personalmente e trovo straordinario Delio Tessa, capace, lui sì, di rendere il dialetto milanese lingua universale».
Come stanno i suoi gatti?
«Benissimo, sono tre ormai, madre, figlio e una trovatella, tutti e tre neri. Sono Ménica, la vecchia, perché, da che mondo è mondo, al mulino dei miei c'è sempre stata una gatta Ménica; Pistolicchio è il figlio, un po' svanito, e Paurina la trovatella, che ha paura un po' di tutto e non esce mai. Madre e figlio sono grandi cacciatori di topi, dopo i primi cento ci siamo stancati di contarli...».
Mario Chiodetti
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