Da dante a garibaldi: macchiette e tromboni

Quando il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano - un attimo prima di venire sommerso dalle risate – ha detto che Dante Alighieri è il fondatore della cultura di destra in Italia abbiamo capito che non c’è proprio niente da fare. La destra, in questo paese, quando parla di cultura, non riesce in nessun modo a uscire dalla sua dimensione macchiettistica.

Ma per sua fortuna c’è la sinistra, che invece non riesce in nessun modo a uscire dalla sua dimensione trombonistica. E infatti, quando il ministro l’ha sparata grossa sull’autore della “Divina Commedia”, invece di fargli pat pat sulle spalle e ricordargli l’abc dell’analisi storica degli eventi, è partita con la solita e trita filippica sull’allarme fascismo e sul vile attacco ai padri della letteratura e sull’intollerabile vulnus alla Costituzione repubblicana e giù le mani dalla scuola pubblica, giù le mani dai diritti degli eroici lavoratori del Catasto, giù le mani dai Maneskin e dalla nebulosa Lgbt e bla bla bla, che a forza di straparlare e di ululare ha finito con il rendere quasi simpatico il malcapitato erede di Giovanni Gentile. O macchiette o tromboni, questo è il livello del dibattito culturale nella repubblica delle banane. Ma anche questa non è poi una novità.

Ora, per chiunque abbia superato anche a fatica le colonne d’Ercole della terza media, è evidente che la questione posta dal ministro è semplicemente ridicola. Destra e sinistra sono due concetti ottocenteschi, che non hanno alcun senso prima della Rivoluzione francese, prima della nascita della borghesia, prima dell’immissione delle masse nella storia, della nascita della questione sociale eccetera eccetera ed è quindi anche del tutto scorretto coniugare il termine “destra” con il termine “reazionario” perché il secondo è un concetto classico, che si dissemina in tutte le ere della nostra storia, a partire dalla cultura greco-romana, mentre “destra”, appunto, è figlia delle grandi rivoluzioni di fine Settecento. Quindi, dire che Dante è di destra o anche che è il fondatore della cultura di destra è come dire che Omero non sapeva l’inglese: fa ridere.

Ma il tema non è tanto questo, d’altronde Sangiuliano arriva dal mondo del giornalismo, categoria ben nota alle cronache per il suo altissimo profilo culturale, oltre che etico e morale. Il tema vero - e su questo sarebbe ingeneroso dare tutti addosso al ministro, come adesso danno tutti addosso alla Juventus, perché se c’è un sistema, nel sistema ci sguazzano cani e porci, non solo i capibastone… - è che quello adottato dall’ex direttore del Tg2 è uno schema consolidato un po’ ovunque, ma soprattutto a sinistra, se vogliamo essere onesti, come ha ricordato qualche giorno fa Marcello Veneziani in una lucida analisi sulla “Verità”. Uno schema che si chiama “riduzionismo”. Cioè, si prende un argomento e lo si riduce, lo si liofilizza, lo si appiccica come una texture al presente, azzerandone la profondità e la dimensione storica, al fine di piegare il passato ai propri interessi personali, politici e demagogici contingenti e di ribadire così il proprio monopolio ideologico sulla cultura.

Si tratta di un’operazione di grandissima scorrettezza molto praticata dalle cosiddette classi dirigenti e dai vari masanielli di turno, grazie alla quale, giusto per fare qualche esempio eclatante, si fa passare Gesù come il primo rivoluzionario della storia, oppure Enea come il primo migrante della civiltà, si interpretano gli scontri tra patrizi e plebei delle epoche classiche come primo esempio di lotta di classe (e invece anche “classe” è un termine che ha senso solo dall’Ottocento in poi…), san Francesco viene letto in qualità di rivoluzionario cheguevarista, santa Chiara come femminista primigenia dell’Occidente e via andare di questo passo. Per non parlare poi del povero Garibaldi, ricorda ancora Veneziani, che ben prima della recente citazione, anche questa del tutto impropria, della Meloni, era stato sequestrato dal Pci dei tempi d’oro, che ne aveva fatto la propria bandiera alle elezioni del 1948. Roba da matti, un difensore della patria e della libertà assoldato dagli stalinisti. E per non parlare, infine, dell’ancor più povero Gramsci, che una ventina di anni fa divenne incredibilmente uno dei riferimenti del Pantheon della neonata Alleanza nazionale, perché - questa almeno la tesi sostenuta dagli intellettuali del “Secolo d’Italia” - Gramsci era nazionalpopolare e visto che anche i post missini erano nazionalpopolari era evidente il legame diretto tra il primo e i secondi. Tesi davvero spassosa, che venne infatti prontamente chiosata da qualche bello spirito, che ricordò che anche Pippo Baudo era nazionalpopolare, anzi, il vero reuccio della cultura nazionalpopolare, e quindi da questo conseguiva il perfetto sillogismo che Pippo Baudo fosse il vero erede di Gramsci. Risate.

Come si diceva prima, un metodo incolto e grossolano che tenta maldestramente di nobilitare le proprie miserie contingenti e la disarmante povertà delle proprie radici culturali facendo leva su celeberrimi esempi passati, che però non hanno alcun legame con l’attualità e che si rivelano fecondi e pedagogici solo se inseriti nel loro tempo, nel loro contesto, nella loro dimensione storica reale. Esattamente il contrario di quello che alimenta lo sciocchezzaio della politica e del giornalismo - più precisamente, del giornalismo asservito alla politica - che sforna porcherie a getto continuo sui media cartacei, televisivi e digitali.

Così come abbiamo giustamente sghignazzato dei ridicoli tentativi del fascismo di appropriarsi della romanità, della classicità e anche del padre Dante, per l’appunto, e così come ci siamo sganasciati sul grottesco sociologismo concettuale eccebombiano dei rivoluzionari da fiaschetteria del Sessantotto, allo stesso modo dovremmo fare con i cacciaballe della nuova politica digitale, che forse sono i più pericolosi di tutti. In fondo, come diceva Bakunin, basta solo una risata per seppellirli.

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