«Salario dimezzato o il licenziamento»: il caso in Svizzera

L’allarme arriva da Sankt Moritz. Vittima un’italiana che lavorava come store manager. Non accetta e riceve richieste sempre più pesanti.

Salario dimezzato da un giorno all’altro o licenziamento. Italiani, scegliete voi. L’allarme arriva da Sankt Moritz e in particolare dal settore del commercio. Un comparto che – a parte alcune grandi catene – non è regolamentato da un contratto nazionale di categoria.

“O mangi la minestra, o salti la finestra”, si diceva in passato, quando c’era ben poco da scegliere. Ma sembra che il proverbio tanto caro ai nostri nonni stia tornando in voga anche in alcune realtà dell’Engadina. Pochissime, per ora, ma in un contesto noto anche per il livello più che decoroso dei salari e dei diritti medi, non passano inosservate. Unia, il principale sindacato elvetico, affiliato per il settore frontalieri alla Cgil e alla Uil, sta raccogliendo le testimonianze dei lavoratori – e delle lavoratrici, visto che le diseguaglianze di genere sono molto rilevanti – coinvolti in queste vicende. Il caso più rilevante degli ultimi tempi riguarda una donna di circa cinquant’anni, impiegata con il ruolo di store manager fino a pochi mesi fa in una lussuosa boutique della città “top of the world”.

La premessa è d’obbligo. Non stiamo raccontando la storia di una lavoratrice finita per caso a gestire un negozio del centro, ma di una vera e propria professionista del settore, con 38 anni di esperienza in questo ambito e uno stipendio – fino all’estate – di oltre 5000 franchi al mese, oltre 4000 euro netti. Ma dopo una vita trascorsa fra scaffali con capi pregiati e scrivania – con un ruolo manageriale -, ecco la doccia fredda. «O si accontenta di 2400 franchi lordi al mese, oppure se ne può tornare in Italia, dove quei soldi non li troverà facilmente», s’è sentita dire la donna con la scusa di una presunta crisi.

Forte di tutto l’orgoglio necessario in questi casi, la lavoratrice – che era assunta con il ruolo di store manager e gestiva la boutique con la massima competenza e la conoscenza di tedesco e inglese – ha subito detto di no. E a quel punto, come testimoniano i documenti presentati alla sede di Unia, sono iniziate richieste assurde, che in vari casi hanno oltrepassato il confine del mobbing e soprattutto del buon senso. Dalla consegna delle chiavi del magazzino alla possibilità di recuperare i permessi, passando per la richiesta di insegnare il lavoro e illustrare la gestione del negozio al collega neoassunti al suo posto – un italiano – con un salario da fame, nelle lettere scritte dall’imprenditore (anche lui lombardo) e dal suo avvocato si è letto di tutto.

Non solo: si sono registrati anche dei veri e propri dispetti, ad esempio con la mancata consegna dei documenti necessari per ricevere l’indennità di disoccupazione dal governo svizzero. I legali della lavoratrice e i funzionari del sindacato hanno smontato le ipotesi del datore, ma resta l’amarezza e soprattutto alla diretta interessata ora manca un posto di lavoro. A più di cinquant’anni, dopo una carriera ricca di soddisfazioni trascorsa al lavoro nelle boutique e un permesso C - ­quello che dà diritto di soggiornare in Svizzera e svolgere un’attività dipendente o indipendente ed è assimilato ad un cittadino svizzero ad eccezione del diritto di voto – in tasca, la lavoratrice deve ricominciare da capo. Senza un posto e con tante spese da pagare, visto che per un affitto di un appartamento decoroso a Sankt Moritz ci vogliono almeno 1500 franchi (circa 1400 euro) al mese.

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