
Fra la gavetta nei cantieri romani di suo zio ingegnere e la leva militare, era da almeno due anni che Luigi Zuccoli non rivedeva Como. C’era arrivato da ragazzino, per questioni di lavoro paterno, e quando la lasciò, col diploma di perito edile fresco fresco in tasca per farsi le ossa a Roma, sapeva che non gli sarebbe mancata in modo particolare, così come sapeva che l’esperienza romana sarebbe stata comunque provvisoria. Non che avesse un brutto rapporto con la Capitale, ma nei suoi piani c’era l’idea di trasferirsi nella città dov’era nato, Milano. Poi però quella tarda mattina uggiosa di novembre, iniziò una camminata lenta, sfaccendata, per la maglia regolare della città murata, a caccia di ricordi (molti) e novità (poche, davvero). Si sentì rassicurato da questa città bella e umida, che non prevedeva scosse alcune. Un posto dove, semplicemente, si stava bene, senza che qualche buriana potesse scatenare scompigli incendiari nelle menti assuefatte dai paesaggi chiusi dei “laghée”.
In fondo qui da sempre le alternative era due, anzi, ad essere precisi, tre: industria serica, mastri comacini e contrabbando. Il turismo, novità del secolo, o la pesca, o le altre attività commerciali, facevano da corolla, ma per arrivare al sodo o cavavi pietre e le mettevi una sull’altra, o coltivavi bachi e ne vendevi la filatura. Il confine e il lago facevano, “naturalmente”, del contrabbando la terza attività, quella illecita. Una sorta di destino geografico, non una naturale vocazione degli abitanti.
Zuccoli sbucò finalmente su Piazza Cavour e il lago gli apparve di fronte. Si mosse in avanti, in diagonale, evitando di trovarsi nel cuore dell’immenso vuoto formato dalla piazza. Fu così che notò qualcosa di curioso. Era l’Hotel Metropole Suisse, diverso da come l’aveva lasciato. Si avvicinò per osservarlo meglio: avevano ristrutturato i primi due piani delle fronti, con alcune aggiunte di fregi architettonici dal gusto viennese. Cose che, appunto a Vienna, già si facevano da almeno un decennio, ma qui, nella città immobile, sembravano nuovissime.
Preso dalla contemplazione quasi trasalì quando si sentì chiamare alle spalle.
“Zuccoli! Cusa te feet chì?”
Incredibile, “el Pepìn”!
Aveva conosciuto Giuseppe Terragni alla Canottieri Lario, appena arrivato a Como, cinque anni prima. Zuccoli quindicenne, l’altro all’ultimo anno dell’Istituto Tecnico. Era una sagoma. Sempre con la battuta pronta, salace, eppure mai per davvero feroce. Era ridere per ridere, prendere la vita con leggerezza, allegria. Si dilettava a fare caricature satiriche che poi pubblicava su una rivista a diffusione localissima, “La Zanzara”. Non c’era settimana che maggiorenti o professoroni comaschi non passassero da sotto le sue forche caudine. Al punto che quasi dispiaceva non essere ancora stati punti dalla penna intinta nel curaro del Pepìn - così si firmava, fingendo un anonimato fasullo, dato che tutti sapevano benissimo chi stessa dietro quel “nom de plume”. Neppure aveva provato a camuffarsi, insomma, conscio che dalle sue punture, alla fine, ci si immunizzava in fretta.
“Stavo guardando il lavoro, qui, al Suisse. La zoccolatura.”
“Ah. Capisco. E te piàs?”
“Ma sai... un modo curioso di usare i materiali. Il mezzo toro verde, cos’è pietra di Roia?”
“Mh-mh” assentì l’altro, incuriosito. “E poi?”
“E poi le paraste senza ordine. E le cornici decorate al primo piano.”
“Eh, sì, sì.”
“Anche la pensilina di ferro e vetro, all’ingresso.”
“Sai che non l’ho capito? Te piàs o te piàs no?”
“Sì, sì, mi piace. Nobilita il tutto. Anche quello che non è stato toccato. Poca spesa molta resa.”
“Poca spesa non direi. È tutta pietra e fregi.”
“No, fidati, è un buon lavoro. Molto, come dire, ‘à la mode’. Mi piace.”
“È naturale che ti piace. L’ho fatto io!”
E giù a ridere, di cuore.
“Cosa?”
Terragni, più alto di Zuccoli di almeno una spanna, lo prese sottobraccio, quasi sollevandolo.
“E adesso vieni con me, hai superato l’esame, ti offro da bere.”
Lo portò al Pollonio. Che in realtà si chiamava caffè Rebecchi, ma tutti lo indicavano così, dal nome dell’oste, il “sciur” Apollonio. Chiacchierarono di tutto, come a rimettersi in pari dei due anni trascorsi. Ogni tanto entrava qualcuno, salutava e Terragni, prodigo, presentava l’amico ritrovato agli astanti. Lo conosci il Manlio? Tel chì il Mario! Ue’, De Benedetti, bevi qualcosa? A furia di chiacchierare s’era fatto tardi.
“Mangium quei coss, d’accord?”
“Terragni, non so…”
“Pollonio, cosa passa il convento?”
“G’havem un risutìn che resuscita i morti.”
“Nooo… quello o lo faccio io o non se ne parla.”
“Lassa stà, che la mé miée l’è minga cuntenta quando metti mano ai fornelli.”
E Terragni, all’amico. “Ogni tanto mi diletto e vado su in cucina a fare il risotto. Ma la moglie dice che ci metto troppo burro e che esagero col parmigiano.” Poi, alzando la voce. “Spiega a tua moglie che con la qualità non si esagera mai!”
Era lui, era il Peppino, sempre scherzoso, al quale non si riusciva mai a dir di no.
“G’havem el pèrsegh, appena pescato.”
“D’accord, ciàpumm do piatt de pèss.” Poi a Zuccoli. “Va bene, no?”
Terragni aveva solo tre anni più di Zuccoli, ma gli sembravano trenta. Sarà stato per la figura alta, gli occhi vividi, i capelli sempre arruffati. Sarà per la sicumera che esprimeva sempre, senza apparire tracotanza. Chissà cosa avrebbe detto il Lombroso dei tratti del volto di Peppino, così gentili e anche un po’ seduttivi, la lieve basletta, la fossetta sul mento. Giocava a fare il sempliciotto, e forse in un certo senso lo era anche, un ragazzo del lago, anche se rivendicava sempre di essere nato a Meda - più vicino a Milano, insomma, che a Como. Però Zuccoli aveva conosciuto la sua sensibilità artistica, la sua passione per il violino, per le arti. Lo aveva lasciato studente del Politecnico. Scoprì quel giorno che s’era laureato da circa un anno e aveva aperto uno studio coi fratelli maggiori, Attilio, “el sciur ingegner”, di otto anni più anziano, e con Alberto, che invece si occupava dell’amministrazione. Queste le belle notizie. Non mancavano anche le brutte, come sempre. Proprio quell’anno la mamma che tanto adorava se ne era andata, un ictus, e anche Silvio, il fratello mediano, per un incidente in automobile.
“Me spiàs, Pepìn.”
Terragni scacciò con un gesto i brutti pensieri. Tiremm innanz. Gli parlò dei suoi compagni di corso. Con alcuni di questi aveva scatenato una piccola polemica sulla Rassegna Italiana. Zuccoli non ne sapeva nulla (Terragni parve deluso). Ma pensa questo giovanotto di ventitré anni, così pieno di iniziative. A guardarlo sembra un dandy di provincia, uno sfaccendato, e invece è un continuo tumulto: polemiche, concorsi, cantieri; pronto a gettarsi a corpo morto nella mischia, pronto a rifare la punta a tutte le matite del Regno.
Poi toccò a Zuccoli. Non c’era molto dire: i villini per artisti di Del Debbio, la villa del principe Pallavicini. Bassa manovalanza la sua, sia ben chiaro. Ma a Roma non vedeva sbocchi. Insomma, cercava lavoro, magari a Milano.
“O magari qui, a Como.”
“Cosa?”
“Passa a trovarmi domattina. Ora stiamo in via Indipendenza al 23.” Indicò alle sue spalle. “Qui dietro. Abitiamo con papà al primo piano. Al piano terra invece c’è lo studio.”
Arrivò Pollonio con il conto. Terragni lasciò più del richiesto. “Guarda che non è una mancia. È per il parmigiano.” Poi all’amico ritrovato. “Ma non venire troppo presto, va bèn?”
“A che ora?”
“Non prima delle dieci. Ché a mè me piàs durmì a la matina!” Concluse, facendogli l’occhiolino.
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