Quei batteri che stanno uccidendo il ghiacciaio dei Forni

L’Università di Milano Bicocca ha pubblicato uno studio sul ghiacciaio “malato” del Parco dello Stelvio - Microorganismi sarebbero responsabili dell’annerimento del manto bianco e rilascerebbero gas serra in atmosfera

La scorsa estate aveva creato scalpore e destato preoccupazione la notizia che il ghiacciaio dei Forni, il più grande delle Alpi italiane, si era spaccato in tre parti a causa del forte innalzamento delle temperature medie, fattore già individuato come all’origine della sua progressiva ritirata. Ora la grande massa bianca del gruppo dell’Ortles Cevedale torna al centro dell’attenzione dei media per una scoperta annunciata dai ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca, che hanno individuato, annidate sulla superficie, forme di vita di cui si ignorava l’esistenza e che, forse, potrebbero avere accelerato quel processo di assottigliamento della coltre ghiacciata.

Si tratta di microorganismi che sopravvivono grazie a due meccanismi di metabolizzazione alternativi rispetto a quelli noti, cioè respirazione e fotosintesi: sono una forma diversa di fotosintesi, che non ha come prodotto finale l’ossigeno, attraverso la quale alcuni tipi di microorganismi usano la sostanza organica per crescere prendendo energia dal sole; e poi l’ossidazione del monossido di carbonio, utilizzato dai batteri per crescere, che in quegli ambienti viene prodotto attraverso la degradazione della sostanza organica da parte dell’intensa luce solare. La ricerca è stata effettuata proprio qui, sul ghiacciaio dei Forni, a 2.700 metri di altitudine e, in contemporanea, nel Kashmir, nel ghiacciaio del Baltoro, ad una quota di 5.000 metri, alle pendici del mitico K2. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica Isme Journal, del gruppo Nature, a cura dei due responsabili, Andrea Franzetti e Roberto Ambrosini, in collaborazione con alcuni colleghi dell’Università Statale di Milano e dell’Accademia delle Scienze Bavarese.

«I ghiacciai non sono ambienti privi di vita - dice Ambrosini -, ma ospitano complesse comunità formate soprattutto da batteri. La loro crescita e i loro metabolismi possono avere un notevole impatto sull’annerimento, sullo scioglimento del ghiaccio e sul mantenimento di funzioni ecologiche essenziali per gli ecosistemi a valle».

È il primo studio che si è avvalso di tecniche di “sequenziamento massivo” del dna dei sedimenti sovragliaciali: i prelievi sono stati eseguiti da piccole buche naturali nel ghiaccio (dette “coppette crioconitiche”). I dati raccolti sono stati elaborati con il server di grandissima potenza del Consorzio interuniversitario Cineca, attraverso tecniche di sequenziamento e bioinformatica.

Milioni di informazioni che permettono di puntare verso altri obiettivi, già nel mirino dei ricercatori: uno dei più importanti è lo studio del rapporto fra batteri e inquinanti (tracce di ddt sono ancora sui Forni, nonostante l’insetticida sia bandito da decenni in Europa), mentre un altro riguarda la dispersione nell’ambiente di microrganismi resistenti agli antibiotici, un problema sempre più emergente dal punto di vista chimico e da quello medico.

«Queste comunità batteriche - sostiene Franzetti - sono ancora più versatili di quanto ipotizzato sinora. La luce non permette solo la fissazione dell’anidride carbonica, ma supporta le esigenze energetiche di altri microrganismi tramite un processo di fotosintesi aerobica anossigenica. Dove la radiazione solare è intensa, inoltre, è possibile trovare batteri capaci di completare l’ossidazione del monossido di carbonio ad anidride carbonica».

La scoperta dunque ha implicazioni importanti e apre nuovi scenari di studio: «Se la presenza di questi metabolismi alternativi fosse verificata in tutte o nella maggior parte delle aree ghiacciate del mondo - che formano complessivamente il 10 per cento delle terre emerse - sarebbe necessario ricalcolare il contributo complessivo dei ghiacci a fenomeni di importanza cruciale come l’effetto serra e il riscaldamento globale» concludono i ricercatori.

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