«Mai mollare e voglio dare
un volto a chi mi ha salvato»

Il dottor Matteo Broggi, 52 anni, racconta le settimane passate al Morelli

Un medico che odia il tampone. Lo chiama il suo incubo personale. All’insegna del «fatemi tutto ma non quello, pagherei per evitarlo». Fa sorridere immaginarlo, un po’ come tutti noi, alle prese con queste piccole debolezze della sanità quotidiana. Fragilità che ce lo rendono ancora più umano, più vicino ai fastidi, ai dubbi, alle sofferenze di chiunque deve affrontare la tediosa, ma necessaria, routine per l’accertamento della malattia. E per Matteo Broggi, 52 anni di Morbegno, sposato con due figli, medico ospedaliero specialista in ortopedia e traumatologia, 24 anni di servizio senza sapere cosa vuole dire saltare un giorno di lavoro, quella malattia si chiama Covid-19.

In ostaggio

Il virus lo ha preso in ostaggio per un mese catapultandolo in un altro luogo - l’ospedale Morelli di Sondalo - e in un’altra dimensione, quasi onirica se non ci fosse di mezzo la morte vera, che racconta con lucidità, ironia, emozione, riconoscenza, forza. In lui rivediamo noi, o almeno una parte di noi che non appartiene alla sfera degli ipocondriaci (categoria forse da rivalutare, meglio prevenire che curare). Invincibili che non prendono neppure un’aspirina, che non sanno cosa siano i giorni di malattia, che sottovalutano e borbottano, che stanno bene a prescindere, anche se qualche fastidio lo percepiscono. Ma dopotutto, cosa sarà mai? Domani andrà meglio. E invece non è andata proprio così…

Gli avvertimenti

«Nonostante tutti gli avvertimenti di mia moglie, come sempre sottovalutati e a volte derisi, e chiedo scusa per tutto questo, anch’io ho fatto la conoscenza con qualcosa di nuovo, subdolo ma purtroppo rivelatosi estremamente faticoso da superare», racconta il professionista. I primi campanelli di allarme li avverte una domenica a casa sotto forma di fastidio a livello tonsillare. Il giorno seguente ven

regalare un contatto fisico dal valore inestimabile. Davanti agli occhi scorre un fiume di emozioni. «Ce l’ho fatta. Debilitato fisicamente, in parte sofferente, ma sono tornato a casa - conclude -. Mi sento più tranquillo, sono qui e posso essere di supporto a chi ha sofferto per me, posso rivedere gli amici più cari, i miei genitori e fratelli. Pronto a riprendere dove avevo lasciato, certo, ma con un’altra mentalità e con la consapevolezza di quanto possiamo essere fragili». Piccoli microbi vulnerabili al cospetto dell’universo, ma non per questo meno determinati. «Non si molla nulla. Potrebbe sembrare un ottimo hashtag. Non è altro che un’affermazione che ho sentito di sfuggita in ospedale, apprezzata e fatta mia nei primi giorni di ricovero. Ebbene sì, io non mollo proprio nulla».

Lo deve a sé stesso, ai propri cari, a chi non c’è più e a quegli occhi stupendi e benevoli che lo hanno salvato e che saranno con lui per sempre.

L’intervista completa di Luca Begalli sul quotidiano in edicola venerdì 24 aprile

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