«La ’ndrangheta terrorizzava Cantù
Io sfruttato come prestanome»

Un testimone apre il processo contro le cosche che controllavano piazza Garibaldi: «Un ex compagno di scuola usava i miei documenti per le loro auto: non volevo denunciarlo»

Una bella lezione di “cittadinanza” è arrivata ieri mattina in tribunale da un giovane canturino di 24 anni, chiamato a testimoniare in quella che di fatto è stata la prima udienza del processo contro i giovani, presunti affiliati di ’ndrangheta che un paio di anni fa tentarono di mettere le mani su piazza Garibaldi e sulla sua “movida” (in parte anche riuscendoci).

Ex compagno di scuola di alcuni degli imputati, il giovane ha detto di avere avuto paura per sé e per la sua famiglia, lasciando a intravedere di averne tuttora, ma ha trovato comunque il coraggio di ribadire il riconoscimento e le accuse, già messe a verbale nel corso delle indagini: i vari esponenti a processo erano violenti che trascorrevano gran parte del proprio tempo a maltrattarlo e a deriderlo.

Una notte d’inverno sotto zero lo gettarono tutto vestito in una fontana: «Non mi sentii di denunciarli - ha detto il testimone -, non mi sentii perché avevo paura di ritorsioni». Ha pagato caro l’errore di avere prestato a un coetaneo, conosciuto sui banchi di scuola, la propria identità per consentirgli di attivare una nuova scheda telefonica, avendo quello smarrito la propria: «Lo feci senza pensarci, in modo amichevole e gentile».

Scoprì che negli anni in cui la banda impazzava per Cantù gli furono anche intestati i contratti di locazione di diversi autoveicoli. Se ne accorse quando a casa cominciarono a recapitargli raccomandate e avvisi di contravvenzioni rimediate anche dalla Svizzera: «Fu uno di loro a rivelarmi come stavano le cose, a spiegarmi da dove provenissero quelle multe... Ma non denunciai nulla, ancora temevo che avrebbero potuto fare del male a me o alla mia famiglia». Il giovane ha poi riconosciuto, tramite un album fotografico, i volti della maggior parte degli imputati. I quali, per la cronaca, non erano in aula.

Il tribunale ha scelto infatti di applicare una norma che consente di “limitare” la presenza degli imputati per reati associativi come quelli contestati nel processo di piazza Garibaldi, a un collegamento video da “remoto”, in questo caso, cioè, dalle carceri in cui sono detenuti.

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