Gli “invisibili” nel presepe vivente

Emozioni a Vetto. Sono i protagonisti della ventinovesima edizione della tradizionale rappresentazione di Natale. Chi ha perso tutto ed è finito sulla strada al centro del messaggio portato in scena da una sessantina di interpreti.

«Lei chiama un uomo, per strada: “Signore, può aiutarmi? Fa freddo e non so dove poter dormire; c’è un posto che può indicarmi?”. Lui continua a camminare, non si guarda indietro, fa finta di non sentirla, inizia a fischiettare mentre attraversa la strada e sembra essere imbarazzato ad essere lì». Si può riassumere anche così il senso dell’edizione 2019 del presepe vivente di Vetto, con le prime strofe di “Another day in paradise” (Un altro giorno in paradiso), una splendida canzone di Phil Collins che torna inevitabilmente nella mente di coloro che osservano con attenzione quanto viene messo magistralmente in scena sui prati di Vetto.

Sì, perché i protagonisti della ventinovesima edizione del tradizionale presepe della piccola frazione di Lanzada sono la strada e i cosiddetti “invisibili”, tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, sulla strada ci sono finiti per davvero, dopo aver perso tutto - casa, lavoro e affetti -, scomparendo dalla vista della maggior parte della gente. Don Mariano Margnelli e gli interpreti del presepe - circa una sessantina, tutti di Vetto e di Lanzada - portano sulla scena il dramma delle tante persone che a cinquant’anni hanno avuto la sfortuna di perdere il lavoro, e trovare un nuovo impiego è diventata una impresa impossibile in un paese come l’Italia il cui mondo del lavoro - ormai privo di regole e di una certa morale - considera i cinquantenni delle persone “finite”.

Oltre agli “invisibili”, anche coloro che sono caduti nel tunnel della droga ha un ruolo importante nel presepe di Vetto perché troppo spesso vengono emarginati dalla società. Ed è così che quest’anno il presepe pensato da don Mariano poggia sulle parabole del buon samaritano e del figliol prodigo. Dopo il prologo con l’episodio del Vangelo in cui Maria fa visita alla cugina Elisabetta, si entra nel vivo con Gesù che racconta la storia di un uomo che, mentre scende da Gerusalemme a Gerico, incappa nei briganti che lo spogliano, lo percuotono e se ne vanno, lasciandolo in mezzo a una strada, mezzo morto.

Un sacerdote passa di lì, lo vede e passa oltre; anche un levita vede quell’uomo a terra ma non gli presta soccorso; un samaritano, invece, passandogli accanto, ne ha compassione, gli fascia le ferite, lo porta in una locanda e si prende cura di lui.

Negli ultimi anni il presepe vivente di Vetto ha abituato il pubblico a continui salti avanti e indietro nel tempo, lunghi viaggi che fanno da trait d’union tra l’epoca quella in cui è vissuto Gesù e quella dei giorni nostri. Il primo salto in avanti porta gli spettatori nel ventunesimo secolo dove un uomo racconta che la cosa che più gli è pesata è stata quella di andare alla Caritas e dire che ha bisogno, proprio lui che non ha mai chiesto niente a nessuno e che si guadagnava da vivere con il proprio lavoro.

È una persona comune che all’improvviso ha perso tutto, è un Cristo barbone «che ferma le persone e gli dice “io esisto, non sono un cartellone, né un legno da processione”», come recita un brano dei Genialando - una band milanese degli anni Novanta - che torna inevitabilmente alla mente quando, e ci capita tutti i giorni, incontriamo per strada qualcuno che ha bisogno di aiuto e, imbarazzati, lo scansiamo. Dai senza tetto si passa alla parabola del figliol prodigo. In scena vediamo un giovane - il secondo di due figli di un uomo ricco - che si pente di aver preteso dal padre la sua parte di eredità e di averla sperperata conducendo una vita dissoluta; il ragazzo torna a casa e il padre lo accoglie a braccia aperte, facendo preparare un grande banchetto per l’occasione. Il primogenito, che si è sempre ben comportato, non capisce la ragione di tutti questi onori ma il padre gli spiega che “bisogna fare festa, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

Alla stessa maniera, due millenni più tardi, Federico ha ventidue anni e racconta di aver provato la droga per la prima volta quando di anni ne aveva soltanto dodici, ai tempi della seconda media; poi un suo amico è stato completamente «bruciato dagli acidi» - racconta -, e per questo decide di andare a San Patrignano, per intraprendere un percorso che lo porterà a fidarsi nuovamente delle persone e che gli farà capire che nella vita bisogna fare fatica per ritornare di nuovo alla vita vera. Ultimo flashback ed ecco l’idea spiazzante di don Mariano che ripensa la Natività facendo nascere il bambino Gesù non nella mangiatoia, come tutti si aspettano, ma su una panchina, una delle tante panchine su cui gli “invisibili” cercano un posto per dormire, la notte.

E come da tradizione ecco arrivare i Magi: sono Federico, - il ragazzo di San Patrignano - Carlo e Vinicio, due senza tetto di Como che, con l’aiuto di don Mariano e dei suoi ragazzi, si stanno faticosamente ricostruendo una vita. Hanno perso tutto quello che avevano ma hanno incontrato Dio, “che è sceso sulle strade degli uomini per farsi prossimo, e che si è fatto incontrare lungo le strade della storia e della vita di ciascuno”.

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