Baby gang resta in carcere
No ai domiciliari

Niente comunità Secondo il giudice il consumo di cannabis non è dipendenza ma uno stile di vita

Baby Gang resta in carcere. Il gip di Milano Guido Salvini ha respinto la richiesta di attenuazione della misura cautelare, presentata dall’avvocato Niccolò Vecchioni, legale del trapper lecchese, vero nome Zaccaria Mouhib, ventuno anni, formalmente residente a Sondrio, in prigione dallo scorso ottobre insieme ad altri membri del suo gruppo, fra cui il rapper lecchese Simba la Rue (ora ai domiciliari), per la sparatoria avvenuta fra il 2 e il 3 luglio in via di Tocqueville, zona della movida milanese, durante la quale due senegalesi erano stati gambizzati.

I video delle telecamere di sicurezza, nella circostanza, hanno inquadrato Baby Gang impugnare una pistola e rivolgerla contro una guardia giurata, ma le successive indagini hanno permesso di appurare come non si trattasse dell’arma che ha ferito i rivali, ma più probabilmente di una scacciacani sottratta agli stessi. Il trapper aveva giustificato quella rissa come l’essersi difeso da un tentativo di aggressione e rapina da parte dei due cittadini del Senegal.

Negli scorsi giorni il legale di Zaccaria Mouhib aveva chiesto che fosse collocato ai domiciliari in una comunità per «affrontare i problemi relativi all’abuso di sostanze». Per il giudice, però, agli atti non ci sono relazioni su «alcun consumo problematico di sostanze psicotrope» da parte di Baby Gang.

«L’uso di cannabinoidi in questo caso non è qualificabile - ha scritto il Gip - come dipendenza in senso stretto ma piuttosto espressione di uno stile di vita» comune «all’enorme maggioranza di coloro che fanno parte del mondo dei trapper o frequentano luoghi di incontro come corso Como” e allo stesso modo il “consumo di alcol” è “uso voluttuario” per “momenti di incontro o di esibizione musicale».

Pronta la risposta dell’avvocato Vecchioni: «Si tratta di un provvedimento fortemente criticabile perché nega il diritto di cura ad un ventunenne e sminuisce la sua condizione patologica, assumendo che l’uso di droga e alcol sarebbe un fatto ’ordinario’ da parte di un rapper e quindi che si tratta di una situazione non meritevole di alcun intervento terapeutico”.

«Inoltre - aggiunge l’avvocato difensore - in un altro passaggio il giudice individua come motivo della necessità del mantenimento in carcere il fatto che il mio assistito rappresenterebbe un modello negativo per il suo pubblico, avendo sfruttato i proprio comportamenti illegali per costruire il suo successo come artista, senza considerare che si discute di un soggetto sostanzialmente incensurato che ha avviato un serio percorso di revisione critica del proprio stile di vita».

© RIPRODUZIONE RISERVATA