Professione ostetrica: «Vi racconto la vita di chi aiuta a nascere»

Le ostetriche in servizio a Lecco sono ben trentotto, che vanno dai venticinque ai cinquant’anni. Una buona parte mamme, anche giovani. E tutte movitatissime. Karin Angeli, coordinatrice ostetrica del reparto di ostetricia e degli ambulatori di ostetricia, ginecologia e prevenzione, del Manzoni, alla vigilia della giornata internazionale dell’ostetrica è una delle portavoci di questo reparto che fa rima con “vita”.

Karin Angeli, la giornata internazionale si rivolge a tutte le famiglie vero?

«L’ostetrica è una figura di riferimento per tutta la famiglia per cui i laboratori sono estendibili alla coppia. Parliamo anche di contraccezione naturale e durante il puerperio (dopo il ritorno a casa, visto che il ritorno della fertilità è abbastanza variabile ma possibile anche senza mestruazioni). Siamo impegnate sempre per le famiglie e per le donne alle quali offriamo le prestazioni dell’ambulatorio a basso rischio ostetrico, prestazioni che si occupano dunque della gravidanza fisiologica (detta appunto a basso rischio). L’ostetrica, d’altronde, si occupa dell’intero percorso nascita ovvero dalla fase preconcezionale, al post parto. Il laboratorio del basso rischio si occupa del percorso nascita».

Come si diventa ostetriche?

«Tramite l’accesso a un corso di laurea triennale di primo livello terminata la quale si può decidere se interrompere gli studi e lavorare o accedere ai due anni specialistici per la laurea magistrale in scienze ostetriche e infermieristiche»

È un mestiere gettonato?

«Si tratta di una professione amata anche perché è molto particolare, impegnativa. Per il momento non c’è carenza di ostetriche, almeno come “vocazioni”».

Qual è il motivo che fa scegliere questa professione?

«Sono tanti. Alcune intraprendono la professione perché hanno avuto esperienze di missione, ovvero in famiglia, oppure perché hanno accentuata predisposizione all’altro. Quando l’ho scelto io ero indecisa tra fare l’infermiera e l’ostetrica, ma poi il mondo della donna e dei bambini, mi ha affascinato di più. Resta in comune la voglia di essere d’aiuto agli altri, di base a tutte noi».

La difficoltà nuova di questi ultimi anni?

«Si tratta di un lavoro di grande dedizione e gli stipendi non sono così competitivi con altre professioni. È un modo di essere, più che una professione tout-court. La devi scegliere, altrimenti non ce la fai. E l’ambito sanitario non è allettante in questo momento storico»-

La richiesta di formazione è molto cambiata?

«A oggi si chiede un percorso universitario che prima non c’era: è diventato corso di laurea solo dal 2000. Fino al 1996 era un diploma universitario. Poi ha cambiato connotazione a tutti i livelli. Sono sempre più numerosi i parti di donne migranti o di origini extracomunitarie».

Che differenza c’è rispetto a prima?

«Sono molto aumentati questi parti. Dal punto di vista di assistenza al parto non cambia nulla, naturalmente. La barriera linguistica fa la sua differenza. Sono donne che magari non si fidano di nessuno. Altre che hanno una struttura famigliare regolare, tranquilla, e si relazionano meglio con noi. Dipende dal grado di integrazione, dalla conoscenza della lingua, e dalla struttura famigliare. Ma il nostro assistere è lo stesso con tutte».

La soddisfazione più bella è sempre quella legata alle nascite?

«Quando le donne ti riconoscono anche a distanza di anni e si ricordano di te, capisci di essere stata un passaggio fondamentale per loro e che hai reso speciale anche tu questo momento. E anche sui social le donne si esprimono molto di più e quasi sempre scrivono cose belle. Quando riusciamo a mandare una donna contenta a casa siamo felici anche noi».

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