Lecco. Due dipendenti
su cento se ne vanno

Il fenomeno: la coordinatrice del settore risorse umane di Confindustria: «Accade anche nel Lecchese». La pandemia ha accelerato le scelte di chi punta a un’occupazione più adatta alla gestione della propria vita

Negli Stati Uniti ha preso piede con il nome di Great Resignation, ma anche Bit Quit o Great Reshuffle, ma ha rapidamente attraversato l’Atlantico ed è arrivata manifestarsi, in modo sempre più consistente, anche in Italia e in Lombardia, toccando naturalmente anche il territorio di Lecco. Si tratta del fenomeno delle dimissioni volontarie, che un numero sempre crescente di lavoratori sta presentando ai propri datori di lavoro perché desiderosi di trovare un’occupazione che permetta loro di dare maggiore spazio a quelle che sono le mutate priorità della loro vita.

Alla base della tendenza, i cui numeri stanno aumentando costantemente, c’è con tutta probabilità la dura prova alla quale le persone sono state messe dalla pandemia, che tra lutti e privazioni ha spinto i cittadini a riflettere su molte cose.

A illustrare come il fenomeno stia “aggredendo” anche i nostri territori è Valerie Schena Ehrenberger, fondatrice di VL Consulting e di Talents4 Business, coordinatrice del settore risorse umane di Confindustria Assoconsult e delegata italiana dell’associazione presso Ecssa (European Confederation of Search & Selection Associations) a Bruxelles, oltre che titolare di Valtellina Lavoro.

«Gli ultimi dati pubblicati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ci indicano che la quota di abbandono volontario è in costante crescita e ha superato il 2% sul totale degli occupati per la prima volta da anni. Inizialmente ho pensato che fosse una tendenza preoccupante. Ma negli ultimi mesi ho visto il lato positivo di questo cambiamento: ci troviamo di fronte ad un collaboratore, un candidato, più maturo, che conosce bene se stesso ed è consapevole di quello che gli serve per essere soddisfatto nella conciliazione tra vita privata e carriera professionale. I colloqui sono quindi diventati più trasparenti con il candidato che sa rispondere alla domanda “Come dovrebbe essere una eventuale proposta da parte del committente per farle dire di sì?”, perché ci ha già pensato».

Non è un fenomeno attribuibile a una specifica fascia di età. «Tendenzialmente più si scende con l’età più i rapporti di lavoro hanno durata breve, si va da 1 a 3 anni per un entry level millennial o appartenente alla generazione Z, mentre abbiamo ancora casi di persone che vanno in pensione dopo aver vissuto tutta la loro vita professionale nella stessa azienda. Questo nuovo fenomeno, invece, è trasversale perché va a riguardare la sfera personale del lavoratore».

E, naturalmente, le esigenze cambiano a seconda dell’età del candidato. «Si va dai giovani che hanno necessità legate a vita sociale e benessere fisico ai più maturi, con esigenze connesse a famiglia e figli. In questo senso, non sono più solo le donne a richiedere contratti flessibili: sempre più anche gli uomini, pure in posizioni manageriali, esprimono questa necessità».

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