«Gli allevatori garantiscono il presidio del territorio»

Assemblea di Aral a Sondrio. Sono più di 600 associati, con 12mila vacche sotto controllo

Più di 600 associati, 12mila vacche sotto controllo oltre a un settore ovicaprino di tutto rispetto e fatto anche di pecore ciute e capre frisa e orobica a rischio di erosione genetica, 298 aziende sottoposte a controlli mensili del latte e 1.200 deleghe pervenute negli ultimi mesi da allevatori professionisti e, ancor più, hobbysti della provincia di Sondrio per la gestione dell’anagrafe zootecnica.

Sono i numeri principali emersi dall’assemblea territoriale di Sondrio di Aral, l’Associazione regionale degli allevatori, tenutasi nella sede del capoluogo, venerdì, alla presenza fra gli altri di Gianenrico Grugni, presidente Aral, Andrea Ferla, direttore generale, Gianmario Tramanzoli, vicedirettore responsabile per l’area montana, e Adriano Zamboni rappresentante di Aral Sondrio. Invitati ad assistere e presenti anche Dario Ruttico, presidente del Consorzio turistico Sondrio e Valmalenco, realtà attraverso la quale è in itinere un progetto Interreg Italia-Svizzera che coinvolge anche la Val Poschiavo, e Franco Marantelli Colombin, vicepresidente del Consorzio di tutela di Casera e Bitto e presidente della latteria di Chiuro.

«Il messaggio che vogliamo passi da questa assemblea e da tutta l’attività associativa in essere è che il miglioramento genetico degli animali perseguito in questi 39 anni da Aral e che ha permesso il mantenimento in vita delle aziende zootecniche di montagna, oggi, non basta più - afferma Tramanzoli -. Fondamentale è stato e lo è ancora, ma oggi dobbiamo spostare il baricentro su un altro concetto per far capire alla popolazione tutta quanto sia emblematica l’attività zootecnica di montagna per il presidio e il mantenimento del territorio. Cioè quanto gli allevatori riescono a tornare alla collettività in termini di servizi ecosistemici. Che non sono paroloni messi lì ad arte per impressionare, ma sono verità che noi saremo in grado di certificare in quanto sono attivi sistemi di misurazione e monitoraggio di tutta una serie di parametri che ci permetteranno a breve di poter rendicontare quello che è l’impatto della nostra attività sugli ecosistemi».

Perché secondo Tramanzoli va sfatato il mito dell’allevatore che inquina, che sporca, sfrutta e rovina il territorio. «È il contrario, tenuto anche conto, tra l’altro, che noi, in montagna, non abbiamo allevamenti intensivi di animali - osserva -, ma abbiamo un tipo di allevamento diffuso, fatto di tante persone che hanno pochi capi di bovini o di ovini e li tengono, più che altro, per passione. Però, nel contempo, garantiscono quel presidio del territorio, anche alle medie e alte quote, maggenghi ed alpeggi, che, diversamente, non ci sarebbe».

Sono aspetti cui Tramanzoli tiene molto, nella convinzione che questa sia parte integrante della mission della zootecnia di montagna «solo che spesso non è compresa - dice -, perché non si tiene conto del fatto che gli alpeggiatori, di fatto, manutengono il territorio e gli stessi sentieri che portano in quota. Si dà tutto per scontato, quel che scontato non è».

Un qualcosa che Aral ha compreso, invero, «tant’è che ho molta attenzione da parte dei vertici regionali rispetto alla zootecnia di montagna - assicura Tramanzoli - e questo appoggio, anche in termini di fondi stanziati, incoraggia tutti noi a guardare avanti con fiducia».

Per Tramanzoli è indispensabile comunicare una zootecnia moderna quale è quella attuale «dove molti interventi sono codificati e tracciati - dice - in primis tutto ciò che riguarda il benessere animale e le cure prestate. In passato siamo stati accusati di riempire gli animali di antibiotici, cosa non vera, men che meno ora dove ogni passaggio è tracciato su apposito registro e dove si somministra l’antibiotico solo dopo aver fatto l’antibiogramma, qualcosa che non si fa neanche per noi umani».

© RIPRODUZIONE RISERVATA